

Sanremo 2026 ci sarà? O per la sua ‘ipotetica’ 76esima edizione non avremo un “Festival della Canzone Italiana” ma qualcosa di simile lontano dai luoghi cui ha legato il suo nome? E si inizierà dall’anno ‘zero’ o ci sarà continuità formale col passato? Sono questi i punti su cui si sta scaldando l’estate 2025 nei rapporti tra la Rai, che organizza l’evento dal 1951 con affidamento diretto, e il Comune di Sanremo, che da 75 anni lo ospita, previa convenzione. Almeno così è stato fino al 2024. E poi cosa è successo?
La storia di Sanremo (e della Rai)
Rai e Sanremo, un sodalizio lungo una vita. Dal 1951 al 2025: 75 anni nel panorama musicale, televisivo e culturale di un Paese sono diverse ere geologiche. Sanremo e la Rai hanno attraversato col Festival cambiamenti epocali nel gusto, nella tecnologia, nel costume italiano. Qualcosa è cambiato, non per volere delle parti,
Diciamo che è intervenuto un fatto ‘inatteso’: qualcuno ha denunciato alla Magistratura la pratica, ormai consueta, dell’affidamento diretto da parte del Comune. Il TAR della Liguria e il Consiglio di Stato hanno dunque sancito, con diversi prounciamenti, l’illegittimità dell’affidamento diretto, imponendo la messa al bando dell’organizzazione dell’evento. Una situazione che ha determinato il riconoscimento di una differenza fondamentale tra il “marchio” del Festival, di proprietà del Comune di Sanremo, e il “format” televisivo, di titolarità della RAI. Sebbene questa decisione abbia infranto un monopolio de jure, la RAI mantiene un solido monopolio de facto. La gara per l’affidamento di Sanremo 2026 ha visto la sola Rai partecipare: con 75 anni di esperienza alle spalle, un investimento economico milionario che in pochi possono permettersi, una forza tecnica e artistica ineguagliabile e la sua capacità di monetizzare l’evento, diventa impossibile pensare di poter fare il Festival senza la Rai.
Perché si parla di trasferimento del Festival?
Il 2024 segna un momento decisivo nella storia dei rapporti tra Rai e Sanremo.
La convenzione è illegittima: si vada a bando
La Convenzione stipulata tra Rai e Comune di Sanremo il 16 dicembre 2021 per le edizioni 72 e 73 è stata oggetto di un ricorso al TAR della Liguria da parte della società di edizioni musicali JE, guidata dal presidente dell’Associazione Fonografici Italiani, che ha contestato la concessione in uso esclusivo del marchio “Festival della Canzone Italiana” senza una procedura di gara. Con la sentenza n. 843/2024, emessa il 5 dicembre 2024, il TAR della Liguria ha dichiarato illegittima la convenzione con cui il Comune di Sanremo aveva affidato direttamente alla Rai l’organizzazione delle edizioni 2024 e 2025 del Festival. Le motivazioni dei giudici amministrativi sono state nette e fondate sui principi del diritto europeo e nazionale in materia di contratti pubblici: il TAR ha stabilito che la convenzione tra il Comune e la Rai non è una semplice collaborazione culturale, ma un “contratto attivo”, in quanto la RAI trae dall’organizzazione del Festival una “chiara e cospicua” opportunità di guadagno economico. In quanto tale, l’affidamento deve rispettare i principi fondamentali di evidenza pubblica, trasparenza, concorrenza e imparzialità, aprendo il bando a tutti gli operatori del settore interessati.
Dalla sentenza del TAR alla Conferma del Consiglio di Stato
La Rai e il Comune di Sanremo hanno impugnato la decisione del TAR, portando la questione davanti al massimo organo della giustizia amministrativa, il Consiglio di Stato. Tuttavia, con sentenze come la n. 4708/2025 e la n. 5602/2025, il Consiglio di Stato ha respinto integralmente gli appelli, confermando su tutta la linea la sentenza di primo grado.
Questa decisione ha reso l’obbligo di gara pubblica un punto di non ritorno a partire dall’edizione 2026. Il Consiglio di Stato ha chiarito in modo inequivocabile che argomentazioni come il consolidato rapporto storico con la Rai, il successo delle passate edizioni o la presunta affinità culturale tra il broadcaster e l’evento non sono elementi sufficienti a giustificare una deroga ai principi di concorrenza sanciti dall’ordinamento. La consuetudine ha dovuto cedere il passo alla legge.
Comune vs Rai, ovvero Marchio vs. Format
La chiave di volta giuridica che ha reso possibile questa rivoluzione risiede nella distinzione fondamentale tra due asset immateriali che compongono il “prodotto Sanremo”:
- il Marchio “Festival della Canzone Italiana“: considerato un bene pubblico, la cui titolarità appartiene esclusivamente al Comune di Sanremo. Il Comune lo ha registrato ufficialmente negli anni 2000 e la stessa Rai, pagando un canone per il suo utilizzo, ne ha implicitamente sempre riconosciuto la titolarità altrui;
- il Format Tv: va inteso come insieme delle scelte editoriali, narrative e produttive che definiscono lo show televisivo. Il Consiglio di Stato ha riconosciuto che questo format è di titolarità esclusiva della Rai, che lo ha creato, sviluppato ed evoluto nel corso di decenni.
La difesa della Rai si è basata sulla tesi che marchio e format fossero inscindibili, un unico prodotto che solo Viale Mazzini poteva realizzare. Tuttavia, i giudici hanno respinto questa argomentazione, stabilendo che i due elementi sono distinti e autonomi. Hanno sottolineato che l’organizzazione dell’evento e la sua trasmissione televisiva possono essere separate, come di fatto accadeva prima del 1991, quando la Rai si occupava unicamente della diffusione televisiva mentre l’organizzazione era affidata a soggetti terzi. Questa scissione ha “liberato” il marchio, rendendolo un bene che il Comune deve mettere a gara.
Come cambia il rapporto tra Rai e Comune di Sanremo?
Le sentenze hanno costretto il Comune di Sanremo ad agire in conformità con la legge, bandendo una gara pubblica per l’organizzazione e lo sfruttamento commerciale del Festival per le annualità 2026-2028. La Rai è stata l’unica realtà a presentare una manifestazione di interesse per il bando, cosa che non stupisce dal momento che difficilmente altri operatori tv presenti sul mercato italiano – e che possono essere potenzialmente interessati allo stfruttamento del marchio – hanno la forza produttiva ed economica per sostenere l’evento.
Il punto è che, in forza delle sentenze, la Rai non è più un partner istituzionale privilegiato, ma un concorrente che si aggiudica una licenza a condizioni di mercato. Queste condizioni sono ora più onerose: il nuovo accordo prevede un canone di base più elevato (almeno 6,5 milioni di euro all’anno vs i 5 milioni per un biennio) e, per la prima volta, una percentuale (almeno l’1%) sugli introiti pubblicitari e sullo sfruttamento dei marchi. Questo sposta una quota significativa del valore economico generato dal Festival dalla Rai al Comune, che ora può negoziare da una posizione di forza, forte della titolarità del suo bene più prezioso: il marchio.
Rai e Sanremo, una vita insieme…
Dalle origini radiofoniche al trionfo televisivo
Il Festival della Canzone Italiana è nato il 29 gennaio 1951, non al Teatro Ariston ma al Salone delle Feste del Casinò di Sanremo. La tv non era ancora ‘arrivata’ in Italia (le trasmissioni regolari ebbero inizio solo nel gennaio 195), per cui le prime edizioni furono trasmesse in diretta radiofonica dalla Rai. L’evento nacque con l’obiettivo di rilanciare il turismo invernale nella cittadina ligure: quella che oggi chiameremmo ‘attività di destagionalizzazione’.
In gara c’erano le canzoni, eseguite da pochi cantanti che ne portavano all’ascolto del pubblico anche più di una. Tutto rigorosamente dal vivo con l’accompagnamento dell’orchestra e signore impellicciate e ingioiellate ad applaudire al Casinò. Nel 1955 ci fu la svolta: la trasmissione televisiva rese il Festival un vero e proprio rito collettivo. Non più solo appuntamento per gli appassionati di musica leggera, ma momento imperdibile per milioni di famiglie italiane. La Rai, unico broadcaster nazionale, non solo amplificò la visibilità del Festival, ma ne plasmò l’immaginario, legandolo indissolubilmente al marchio Rai. Fu in questo periodo che Sanremo si consolidò come la principale vetrina della musica italiana, capace di lanciare carriere destinate a un successo duraturo e internazionale. L’esempio più emblematico è quello di Domenico Modugno, che nel 1958 vinse con “Nel blu dipinto di blu”, una canzone che divenne un successo mondiale e simbolo dell’Italia del boom economico.
Il Festival di Sanremo come pietra miliare del costume italiano
Più di una competizione canora, il Festival di Sanremo si è affermato nei decenni come un potente barometro culturale e sociale del Paese, diventando una sorta di cartina al tornasole dell’evoluzione – o involuzione, a seconda dei punti di vista – dei gusti, delle tendenze artistiche, del contesto culturali, ma anche delle tensioni politiche e sociali dell’Italia dagli anni ’50 a oggi. Dal romanticismo pudico di Grazie dei fior di Nilla Pizzi (1951) ai 24.000 baci ‘urlati da Adriano Celentano nel 1961, che sconvolse la quieta borghesia e segnò un primo strappo con la tradizione. Gli anni ’70 fecero proprie le inquietudini dell’epoca, segnando anche un declino dell’evento non più in linea con le difficoltà di un Paese stretto tra crisi economica e terrorismo: anche in questo caso Celentano si fece portatore dello Zeitgeist, con Chi non lavora non fa l’amore di Celentano (1970) mentre i Delirium incarnarono lo spirito hippie dei primi anni del decennio con Jesahel. Nel 1977, poi, il Festival si trasferisce al Teatro Ariston, dove tuttora si svolge.
Gli anni ’80
L’epoca del Riflusso vide, non a caso, il ritorno del Festival nel costume italiano: a trainarlo la voglia di coinvolgere i giovani (Cecchetto conduttore, un parterre di nuove leve come un ‘disturbante’ Vasco Rossi con Vado al massimo (1982) e Vita spericolata (1983). Ma è anche il momento in cui l’evento musicale si fa sempre più evento televisivo: Pippo Baudo rende Sanremo “Sanremo” con i suoi Festival e il suo slogan – Perché Sanremo è Sanremo – forse cementa più di ogni altra cosa l’identità tra luogo ed evento. Quello che adesso sta venendo al pettine a seguito delle vicende giudiziarie.
Tornando alla sua storia, con gli anni ’80 – e l’organizzazione di Gianni Ravera, direttore artistico, con la Publispei per diversi anni – il Festival diventa davvero internazionale, pur perdendo la sua caratteristica principale, ovvero l’esibizione dal vivo. Mentre da una parte si afferma il playback, dall’altra sono gli anni dei superospiti, del delirio per i Duran Duran, i Queen, The Smiths, Bob Geldof, del bis di Whitney Houston. Sono anche gli anni in cui inizia a farsi prepotente il bisogno di altri spazi e di altre durate: nel 1987, infatti, fu allestito il Palarock dove si esibivano i grandi artisti internazionali e che passò alla storia tv italiana per la spallina ‘birichina’ di Patsy Kensit che scivolò in diretta tra lo sconcerto dei vertici e la gioia degli amanti dello scandalo sanremese. e le serate passarono dalle consuete 3 a 4. Ma fu anche il periodo delle proteste davanti all’Ariston e delle rivendicazioni sindacali sul palco: resta memorabile la delegazione dell’Italsider con Baudo nel 1984. Conferma la centralità del Festival come collettore dell’attenzione e dell’interesse del Paese, il posto dove bisogna essere per esistere. Trent’anni dopo c’è chi ci ha provato, ma con modi ed esiti totalmente diversi.
Gli anni ’90
Gli anni ’90 diventano invece la ‘nuova tradizione’. Sempre sotto l’egida di Pippo Baudo che lascia il suo segno anche nel nuovo decennio tra ‘cavalli pazzi’ e sventati suicidi, il Festival in questo periodo viene affidato ad Adriano Aragozzini, che ‘debutta’ nel 1989 affidando la conduzione ai quattro “figli di” che hanno fatto la storia dell’evento, ma che riporta stabilmente la musica dal vivo a partire dal 1990. Sempre dal 1989 le serate del Festival diventano 5, secondo una formula che resiste da allora.
Sono gli anni di ‘Baudo talent scout’, sono gli anni che vedono l’affermazione del Festival come evento primariamente televisivo, con ritmo e struttura da varietà tv e non solo da gara canora, anche se la bravura di Baudo fu quella di fare della musica e dei cantanti in gara il vero show, nonostante il rigidissimo regolamento che all’epoca vietava ai conduttori ogni interazione con i concorrenti per non influenzare il pubblico a casa. Un’altra epoca. Dagli anni ’90 arrivano voci che hanno segnato il panorama musicale italiano come Laura Pausini e Giorgia.
Gli anni Duemila
Lo sguardo critico sui primi 25 anni del 2000 ha bisogno forse di un maggior distacco, ma di certo sono decenni segnati da difficoltà economiche e da identità frammentate, visto che la direzione artistica e la conduzione passano di mano velocemente. Saranno ricordati sicuramente per il quinquennio di Amadeus, che ha dato al Festival una forte impronta personale, per quanto molte delle innovazioni che sono state celebrate negli ultimi anni arrivino da lontano. Sono però gli anni delle nuove forme musicali, degli artisti da talent, delle proteste sul palco, ma degli orchestrali contro il televoto (2010), sono gli anni della vetrina e dello show che quasi fagocita la musica. Sono anche gli anni del rap e del rock vincitori – penso a Mahmood (Soldi, 2019) e i Måneskin (Zitti e buoni, 2021) e anche gli anni del ritrovato legame con l’Eurovision Song Contest, cui torna a partecipare dal 2011 dopo una pausa iniziata nel 1998.
Un modello di business difficile da replicare
Tutto questo si basa su un modello organizzativo ed economico non solo raffinato nel tempo, ma anche possibile grazie all’investimento professionale ed economico della Rai. Come sa chi ha seguito la storia del Festival, negli anni la Rai è riuscita a trasformare un evento in ‘perdita’ – con un passivo tra costi e ricavi diretti – in una “cash cow”, capace non solo di autofinanziarsi ampiamente, ma di generare profitti significativi e un impatto economico che si estende ben oltre i confini di Viale Mazzini. Documenti parlamentari relativi alle edizioni 2010-2012 mostravano un bilancio in cui i costi diretti superavano i ricavi, con un differenziale negativo di quasi 5 milioni di euro ancora nel 2012. Ciò dimostra che il modello di business attuale, straordinariamente redditizio, è una conquista relativamente recente.
La crescita della raccolta pubblicitaria è stata esponenziale nell’ultimo decennio. Se nel 2021 gli introiti pubblicitari si attestavano a 38 milioni di euro , sono saliti a 50 milioni nel 2023, per poi raggiungere i 56 milioni nel 2024 e un consuntivo di 65,2 milioni per l’edizione 2025, superando l’obiettivo iniziale di 60 milioni e sfiorando la stima record di 67 milioni.
Questo è stato reso posibile dalla vendita degli spazi pubblicitari e dalle sponsorship, insieme all’introduzione del progetto “Tra palco e città”, avviato nel 2020, che ha datto dell’intera città di Sanremo in una piattaforma di marketing diffusa.
A fronte di ricavi così imponenti, i costi organizzativi del Festival sono passati da una media di 17-18 milioni di euro nelle edizioni precedenti a una stima di circa 20 milioni per il 2025. Confrontando i ricavi e i costi, emerge un quadro finanziario positivo per la Rai. Prendendo come riferimento i dati del 2025, a fronte di una raccolta pubblicitaria di 65,2 milioni di euro e costi organizzativi stimati in 20 milioni, il Festival genera per la Rai un profitto operativo lordo di oltre 45 milioni di euro.
Questo margine rende Sanremo non solo un programma televisivo di successo, ma uno degli asset più redditizi, se non il più redditizio, dell’intero palinsesto di Viale Mazzini. L’evento non solo rientra ampiamente nei costi, ma crea un surplus economico considerevole che può essere reinvestito in altre produzioni e contribuire alla sostenibilità finanziaria complessiva dell’azienda di servizio pubblico. La capacità di generare un tale livello di ricavi costituisce la principale barriera all’ingresso per qualsiasi potenziale concorrente, anche in un regime di gara pubblica. La redditività non è un effetto collaterale del successo di pubblico, ma il fondamento del suo monopolio di fatto.
Tra le principali fonti di spesa ci sono senza dubbio i costi di affitto del Teatro Ariston, i cachet e rimborsi spese per gli artisti, i compensi per Direttore e cast artistico, ma soprattutto la Convenzione con il Comune di Sanremo: la Rai ha infatti versato al Comune circa 5 milioni di euro per l’uso del marchio e altri servizi con accordi biennali. Ed è qui che si annida il ‘busillis’ che ha portato alle sentenze di TAR e Corte dei Conti. A seguito delle recenti sentenze, il nuovo bando di gara prevede un corrispettivo minimo di 6,5 milioni di euro annui, più una quota non inferiore all’1% sui ricavi pubblicitari, aumentando significativamente questo costo per la Rai. E la situazione sembra essersi arenata qui.
Gli scenari possibili: senza accordo, via da Sanremo?
Cosa ne sarà del Festival della Canzone Italiana in diretta da Sanremo?
Alla presentazione dei Palinsesti Rai a giugno 2025, non è stato menzionato il Festival di Sanremo. Per presentare quella che sarebbe dovuto essere Sanremo Giovani 2025 si è optato per un titolo neutro come Festival Giovani. Per la serie, comunque sia faremo qualcosa con un qualche nome.
Una scelta, questa, che ha reso manifesto il momento di ‘empasse’ sul futuro dell’evento. Siamo, infatti, nella fase di trattative tra Rai e Comune di Sanremo, con l’azienda che vorrebbe tagliare un po’ dei costi previsti dalle sentenze e il Comune che si fa forte della propria posizione. Le riunioni si sono susseguite, con un’accelerazione alla vigilia del CdA Rai di inizio agosto.
Sul tavolo c’è anche la possibilità di lasciare Sanremo e il marchio “Festival della Canzone Italiana” per lanciare qualcos’altro, con un altro nome (potrebbe bastare un “Festival della Musica Italiana”) in un altro luogo, ma con tutta la forza manifestata nei primi 75 anni di Festival. Tra le ipotesi di cui si parla c’è Torino, dove la Rai ha già organizzato l’Eurovision Song Contest nel 2022 in un palazzetto molto più adatto dello ‘storico’ Teatro Ariston, con strutture alberghiere capaci di accogliere migliaia di persone, in un contesto logisticamente è più comodo da raggiungere della Riviera dei Fiori e con un CPTV nevralgico nell’infrastruttura Rai.
Ne sapremo di più a breve.