The Pitt, un ‘déjà vu’ d’alta classe
The Pitt

The Pitt arriva su Sky e in streaming solo su Now mercoledì 24 settembre con le 15 puntate della sua prima stagione. Le abbiamo viste e ora respiriamo insieme al dott. Michael “Robby” Robinavitch.

 

Gli anni ’90 celebrati in apertura, un consolidato repertorio di genere aggiornato agli anni ’20 del XXI secolo, uno sguardo meno romantico sulla professione e più lucido sulle logiche di gestione di un ospedale,  guidato dai sondaggi di soddisfazione dei clienti e dalle prestazioni al minuto oltre che dal semplice ‘taglio dei fondi’: The Pitt recupera la frenesia da accesso continuo di E.R. e la fonde con un’unità di tempo e di luogo che accompagna il pubblico nelle 15 ore di turno del ‘pozzo’ del Trauma Medical Center di Pittsburgh.

The Pitt, un ponte consapevole tra i ’90 e i ’20

Fai partire il video e ti sembra di essere fuori dal tempo: un Times New Roman su sfondo nero, le riprese panoramiche su Pittsburg, il titolo a caratteri cubitali e soprattutto la colonna sonora con “Baby” dei Robert Bradley’Blackwater Surprise (1990) che accompagna l’ingresso del protagonista nel suo luogo di lavoro: l’opening della S1E1 di The Pitt è ponte – voluto, costruito – verso quegli anni ’90 che hanno visto la trasformazione del medical tv con E.R.– Medici in prima linea. 

The Pitt

Non solo un omaggio a quella eredità – coltivata del resto dalla presenza di R. Scott Gemmill, già dietro al successo di E.R. – ma anche un ammiccamento al pubblico più consapevole – o più ‘maturo’ – che sa che lì ritroverà un volto amato del titolo, dell’epoca e del genere: parliamo ovviamente di Noah Wyle, fresco di Emmy come miglior attore in una serie drammatica, che abbiamo visto in gioventù nell’ambizioso e tormentato camice del milionario John Truman Carter III. Ma basta davvero molto poco per rendersi conto che Michael “Robby” Robinavitch non è un John Carter cresciuto, ma un personaggio dalle mille sfumature, diverso anche nel suo approccio al lavoro. Un medico di PS che passa quasi danzando da una sala trauma a un’altra, presente praticamente in ogni caso affrontato, che soffoca i suoi demoni, ma che ferma il tempo per omaggiare le vittime e far respirare l’equipe. Ed è il tempo una delle chiavi della bellezza di questa serie, insieme a quel ponte – il Sixth Street Bridge o Roberto Clemente Bridge – su cui corre la prima ambulanza della serie: già da quell’inquadratura si capisce che stiamo entrando in un altro mondo, che Pittsburgh non è Chicago (sì lo so, detta così è premio GAC del secolo, ma cogliete il riferimento…).

L’unità di tempo e spazio lasciano senza fiato

Una serie così può essere rilasciata solo in box-set: bisogna immergersi nelle 15 ore di turno del Pitt per capirlo, non bastano 50′ a settimana. Mai come in questo caso la forma narrativa e la modalità di distribuzione sono correlate: restare in sospeso dopo una ‘sola’ ora di lavoro spegnerebbe tutto il crescendo costruito per far conoscere al pubblico ogni singolo personaggio e il pitt stesso, personaggio a sé stante. The Pitt potrà essere facilmente preso ad esempio per spiegare le trasformazioni dettate dalle OTT sulla scrittura audiovisiva.

Il crescendo è la chiave del racconto: non a caso la prima sensazione è quella del déjà vu. La prima puntata sembra procedere a fatica, appesantita da una serie di ‘nodi’ narrativi che sembrano già visti: la dottoressa segretamente incinta, il giovane medico che ricorda Carter, il trauma Covid, la sala d’attesa strapiena, l’amministrativo lamentoso e ricattatore… Diciamo pure che il repertorio c’è tutto e sembra volutamente esposto nella prima puntata: il roof dove si medita, l’ascensore dove ci si consulta (Pittsburgh non è neppure Seattle…), gli specializzandi in arrivo, gli studenti di medicina che svengono, la sala d’attesa stracolma, lo spettacolo di arte varia di archetipi medici e infermieristici che si alternano intorno alle barelle, che a propria volta si riempiono di pazienti altrettanto archetipici.

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A rendere tutto progressivamente mozzafiato è proprio l’unità di tempo e di luogo: non ci sono ellissi, non si mangia al diner, non si va a casa degli altri, non trascorrono giorni. Resti chiuso con tutti i protagonisti in quello che per noi sarebbe un reparto di alta specializzazione, in cui i tempi di attesa di 8/12 ore per un letto – espressi con dispiacere dal personale – sono da noi percepiti come brevi.

Familiarizzi con tutti loro nel corso dei minuti: non c’è l’effetto travolgente della concitazione spettacolare, ma c’è la costanza di un lavoro che richiede lucidità e responsabilità, che però si intreccia naturalmente con le preoccupazioni, le battute, le relazioni che un posto di lavoro porta con sé.

Il ‘pozzo’ ti inghiotte, anche da spettatore. Così come inghiotte i medici e gli infermieri in un ciclo infinito di casi e di preoccupazioni, così come inghiotte i pazienti, che non sanno se e come ne usciranno, così il ‘pozzo’ inghiotte anche noi, che alla fine della stagione facciamo fatica a uscire da quel turno emotivamente e professionalmente massacrante.

Scrittura e regia fanno il resto, ma E.R. resta un unicum

Ogni gesto è misurato, ogni parola ha un senso, ogni scambio una funzione: la scrittura e la regia di The Pitt vanno per sottrazione. Scrittura e messa in scena sono talmente ben congegnate da dimenticarsi quasi che ci sia una telecamera a rappresentare gli eventi. L’unità di luogo, in questo senso, non stanca: anche la scenografia e le luci riescono a rendere il senso dell’asetticità e dell’impersonalità senza freddezza. Non ti stanchi delle sale, né dei corridoi, dai quali è stato tolto qualsiasi cosa che ridondasse. Anche la colonna sonora. Ci sono solo gli effetti sonori di un PS, allarmi e rumori ambientali, parole, urla, silenzi, pianti.

The Pitt

Non c’è sovraccarico sensoriale, solo emotivo, che passa attraverso le azioni e le interpretazioni dei personaggi. Ci si domanda davvero come facciano medici/infermieri a fare quel lavoro e a farlo tutti i giorni per anni. Sento in lontananza l’eco dell’entusiasmo di Minerva Salute (cfr. TikTok) e la voglia di una serie realistica dai PS italiani cresce a dismisura. Ma questa è un’altra storia.

Resta da dire una cosa: per quanto The Pitt sia diverso da E.R., ci ricorda una volta di più quanto E.R. fosse avanti 30 anni fa e quanto lo sia ancora oggi. La complessità narrativa e produttiva di quella serie resta un unicum.

Un Robin(avitch) in corsia

Una delle cose interessanti della scrittura di The Pitt è la coralità. Robinavitch è sicuramente il fulcro, il perno intorno cui ruota tutto, ma non cannibalizza gli altri: ne viene fuori una squadra caratterizzata, con archetipi riconoscibili ma non necessariamente stereotipati, che rappresentano forse più di tutto il passaggio dagli anni ’90 a oggi. Se all’epoca il dottor Benton faceva scalpore per essere un chirurgo nero di successo, oggi il ventaglio rappresentativo è ampio e variegato. Anzi, alla luce delle ultime iniziative di Trump, verrebbe da dire che il parterre di medici e infermieri rappresentato da The Pitt rasenta ormai il fantasy, purtroppo.

The Pitt

Si amplifica anche la denuncia del sistema: E.R. squarciava il velo della ‘medicina romantica e missionaria’, oggi The Pitt mette in fila, anche con un brevissimo dialogo, le storture di un sistema riconoscibile anche da noi. Il velocissimo botta e risposta nella prima puntata tra il dott. Robinavitch e la responsabile dell’ospedale, Gloria Underwood (ogni riferimento a Frank è puramente casuale, vero?)  è un gioiellino di analisi medico-aziendale che sarebbe perfetto anche da noi.

Se già nella prima stagione The Pitt ha acceso un riflettore sulla situazione degli ospedali e del sistema assistenziale americano, la seconda promette di essere ancora più centrata sulle misure devastanti dell’amministrazione Trump. Visti i recenti casi dei late show di Stephen Colbert e Jimmy Kimmel e l’anatema lanciato sui programmi ‘superstici’, ci auguriamo solo che Trump non guardi anche serie tv…

The Pitt Covid

Sembra, inoltre, che spetti ai medical drama ricordare al pubblico cosa è stato il Covid: travolti dall’ondata di negazionisti, complottisti, antivax arrivati con orgoglio anche ai vertici dell’amministrazione – cfr. Kennedy negli USA, ma esempi ce ne sono anche da noi -, sembra quasi che il Covid sia stata una ‘montatura’. I morti, invece, sono reali, le conseguenze sono reali e sembra che siano proprio le serie tv a ricordarlo al pubblico. Ci aveva pensato Grey’s Anatomy a caldo, ma adesso arriva anche The Pitt, anche qui con un crescendo che fa da linea narrativa orizzontale e caratterizzante per il protagonista.

Anche il mondo dei medical è piccolo…

The Pitt nasce dalla tradizione di E.R., condividendone un creatore e un protagonista, e si distanzia nello stile e nei toni dal titolo che ormai ha conquistato il titolo di serie di genere più longeva. Eppure un link con Grey’s Anatomy lo si trova e non solo nel riferimento al Covid: trovare ‘Penelope Blake’ (aka Perfect Penny killed my husband) tra i personaggi della prima stagione fa un certo effetto. E non mi venite a dire che chi ha fatto il casting e ha scelto Samantha Sloyan non lo sapeva… 

Ora a voi la visione: la serie, prodotta dalla John Wells Productions in collaborazione con Warner Bros. Television e targata HBO Max Original in America e Sky Exclusive in Italia, è su Sky e Now dal 24 settembre… Buona visione.

 

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