

I ragazzi di Hawkins sono cresciuti, ma non abbastanza da far crollare la magia: tra crescita reale e continuità narrativa, l’ultima stagione di Stranger Things trasforma l’età del cast in un alleato. E c’entra anche Game of Thrones…
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Nel giorno dell’uscita del Volume 1 di Stranger Things 5 il web si perde interviste e dichiarazioni su cosa, come e perché. Ma in una di queste interviste (uscita in realtà prima della distribuzione dei nuovi episodi) c’è una dichiarzione, quasi buttata lì, che dice molto più di quanto sembri.
Su Variety i creatori e produttori della serie tv, i fratelli Matt e Ross Duffer, hanno infatti spiegato come hanno affrontato una delle questioni cruciali dello sviluppo produttivo della serie Netflix, ovvero la crescita del giovane cast: perché se nella realtà abbiamo la consapevolezza che tutti gli attori protagonisti non sono più dei ragazzini o ragazzine ma dei giovani uomini e donne, nella serie non deve essere così. Anche perché (e non è uno spoiler), l’ultima stagione riparte da dove si era conclusa la quarta, senza alcun salto temporale che avrebbero potuto giustificare il cambio di aspetto fisico e di voce di Mike, Will, Undici & co.
Eppure, hanno svelato i Duffer, quello che per noi spettatori potrebbe sembrare un ostacolo insormontabile o comunque assai difficile da gestire è stato “meno drammatico di quanto il pubblico creda”. Sembra assurdo, ma a pensarci bene non lo è: i due autori sanno benissimo che Stranger Things non è solo una serie di mostri e nostalgia anni ’80, ma un ottimo esempio di come creatività e produzione s’intrecciano per offrire al pubblico una vera e propria esperienza visiva e narrativa.
Crescere e non sembrare fuori posto
Si potrebbe parlare di “sospensione dell’incredulità”: vediamo i giovani interpreti dei membri dell’Hellfire Club più grandi dei loro personaggi, ma ci passiamo sopra. I Duffer, però, la mettono giù più semplice: il pubblico nota questa differenza molto meno di quanto pensi. E citano un esempio preciso: una parte dell’episodio “Dear Billy” (nella quarta stagione) fu girata a un anno di distanza, con una protagonista che nel frattempo era visibilmente cresciuta. Nessuno se n’è accorto, dicono, perché il montaggio e la messa in scena hanno fatto il loro lavoro.
Sembra un dettaglio tecnico, ma in realtà è la chiave della narrazione seriale con cast adolescenti. I momenti più difficili non sono quando gli attori hanno 19 o 20 anni e interpretano 16enni (praticamente una regola nel mondo della tv, che permette alla produzione di avere sul set attori e attrici sì giovani ma maggiorenni, e quindi senza i vincoli necessari di chi ha meno di 18 anni). Il vero punto critico è la transizione rapida dell’adolescenza all’età adulta (cambio di voce, altezza, lineamenti, e così via).

È lì che la coerenza visiva può crollare, ma i Duffer sostengono che quella fase è ormai “superata”. Un’osservazione che ribalta la narrativa social: tra una stagione e l’altra il cast di Stranger Things non si è nascosto ma, al contrario, è diventato ancora più famoso grazie ad altri progetti e alla continua proposizione della loro presenza sui social. E noi ci siamo abituati a vedere non più i personaggi, ma gli attori e le attrici. Ora che si torna nel mondo del Sottosopra, ci preoccupiamo che Hawkins sia invecchiata più in fretta di quanto volessero gli sceneggiatori. La realtà, secondo i due creatori della serie tv, è che ora la curva si è stabilizzata.
Sia chiaro: non è che il pubblico sia così ingenuo da pensare che il set di ST sia miracolo e possa ringiovanire chiunque ci metta piede. Se è vero che la produzione ha lavorato molto bene sul fronte trucco, parrucco e costumi per ridare al cast le sembianze dei personaggi che avevano temporaneamente salutato più di tre anni fa, non bisogna dimenticare l’utilità della computer grafica, nello specifico dei tool di ringiovanimento e di modifica della voce che in post-produzione hanno permesso di “limare” i volti delle giovani star e i loro nuovi timbri di voce, fermando -almeno per i loro personaggi- il tempo.
L’eredità Game of Thrones: produzione, non mito
C’è poi una questione più industriale. I Duffer nell’intervista citano Game of Thrones non come ispirazione creativa, ma come caso-studio di produzione: la serie HBO ha insegnato loro (e a tutti noi) che, con un cast giovane e un arco narrativo lungo, servono budget importanti non solo per fare draghi, ma per gestire continuità scenica, trucco, costumi, scale di ripresa, casting secondario. Insomma: una serie non diventa cult solo per gli effetti speciali.
Questo è un passaggio che la maggior parte del pubblico sottovaluta. Stranger Things è nata fin dalla prima stagione come mega cult di Netflix, ma anno dopo anno si è trasformata anche in una palestra produttiva. Gli autori non hanno dovuto solo controllare solo la storia, ma anche tempo e percezione. E i Duffer, trovando la giusta equazione, ci hanno messi nella loro rete.
Stranger Things e il paradosso dell’“età narrativa”

Ora vi chiediamo: la serialità moderna vive un paradosso per cui più il pubblico matura, meno vuole che i personaggi lo facciano? Stranger Things nasce come teen horror e diventa un racconto di formazione; a un certo punto Undici, Mike, Dustin, Will e Max non sono più avatar generazionali, ma memorie personali. Per chi aveva 13–15 anni nel 2016 (anno di uscita della prima stagione), oggi sono l’equivalente dei compagni di scuola ritrovati all’ultima cena di classe: sono cresciuti, ma nella nostra testa restano eternamente alla Hawkins Middle School.
I Duffer, qui, hanno giocato d’anticipo: non hanno cercato di “congelare” il cast, ma ne hanno accettato la crescita, controllandola in ogni fotogramma: li vediamo più maturi, sì, ma in contesti narrativi che legittimano quella maturità, assegnando loro più oscurità, più responsabilità e meno innocenza: insomma, stanno crescendo ma non sono ancora adulti. Sono gli stessi ragazzi, schiacciati da un mondo che li costringe a crescere (e a combattere con forze paranormali che vogliono distruggere la loro realtà).
Il lancio del Volume 1: la prova del nove

L’uscita del Volume 1 della stagione finale (ovvero i primi quattro episodi; altri tre usciranno il 26 dicembre e il 1° gennaio 2026 l’ultima puntata) è la verifica finale. Qui il pubblico non potrà più basarsi su trailer, foto promozionali o ricordi della quarta stagione. Ogni scena, ogni dialogo, ogni close-up dovrà dimostrare che i Duffer non stavano solo cercando di sminuire il problema, ma che hanno davvero costruito un ecosistema in cui l’età del cast non rompe la narrazione. E, assicura chi ha già visto i primi episodi, dopo un attimo di spaesamento (d’altronde sono passati tre anni dal finale della quarta stagione) sarà come non aver mai lasciato Hawkins.
Stando ai Duffer, Stranger Things ha già superato il vero “pericolo di crescita” (che loro indicano tra le stagioni 2 e 4). Ora si entra nella fase classical: si chiude il cerchio, si raccolgono le linee narrative, si spinge sull’epica. E l’epica è uno dei pochi registri in cui l’età non è un problema, ma aiuta.
Il patto, fino alla fine

La serie, come tutta la tv che vuole diventare mito, vive in un patto implicito con lo spettatore: tu accetti che continuiamo a raccontarti questi personaggi, noi ti garantiamo che ciò che vedi non romperà la magia. Finché il patto regge, Stranger Things resta ciò che è sempre stata: un racconto generazionale che attraversa il tempo, dentro e fuori dallo schermo. E la quinta stagione arriva oggi a ricordarci una verità semplice: sì, i ragazzi sono cresciuti. Ma sono cresciuti con noi. E in tv, se la storia è buona, non c’è osservazione critica che tenga: la magia si ripete.





