

Dal Queens alla ciociaria televisiva: La Tata fu il simbolo di un’epoca in cui le sitcom americane divennero la lingua universale delle nostre risate. Trentadue anni dopo il debutto USA, e trent’anni esatti dalla sua prima messa in onda su Canale 5, resta una delle sitcom più amate e riconoscibili di sempre.
C’è una voce nasale che annuncia un tornado in minigonna, un’incipit cantato che resta in testa (“She was workin’ in a bridal shop in Flushing, Queens…” – trad. “Lavorava in un negozio di abiti da sposa a Flushing, nel Queens“) e un immaginario pop che ha fatto scuola: è The Nanny, per noi La Tata. La serie debutta negli Stati Uniti il 3 novembre 1993 sulla CBS e diventa rapidamente un fenomeno globale; in Italia sbarca il 26 giugno 1995 su Canale 5, un approdo ingenuo del successo che poi avrebbe avuto nel nostro paese. Con quella prima visione si instaura un legame che non si fermerà a quel mese di messa in onda, ma durerà molto a lungo.
Oggi – con quella giusta dose di nostalgia – celebriamo 32 anni dall’esordio assoluto di questa sitcom nonché i 30 anni tondi dalla prima messa in onda italiana: due compleanni che raccontano non solo la fortuna della serie, ma anche l’epoca in cui le sitcom americane hanno colonizzato i nostri palinsesti, cambiando per sempre il modo in cui ridevamo in TV.
Come nasce The Nanny – una fiaba pop scritta da Fran Drescher
Siamo tutti d’accordo sul fatto che The Nanny sia il classico esempio di sitcom costruita su una personalità decisamente magnetica e che questo aspetto sia uno dei tanti ad averla portata al successo.
Fran Drescher la crea e la produce con l’allora marito Peter Marc Jacobson, pescando a piene mani da biografia, famiglia, tic linguistici e cultura pop newyorchese. Il formato è quello della multi-camera da 22–24 minuti, la stagione lunga e i personaggi “a frizione”:
- L’aristocratico impresario Maxwell Sheffield (interpretato da Charles Shaughnessy)
 - I tre figli (Maggie, Brighton, Grace)
 - l’arpia ma elegantissima C.C. Babcock
 - Il maggiordomo Niles che sussurra verità taglienti.
 
In sei stagioni la serie mette insieme 146 episodi, raccoglie 12 candidature agli Emmy con una vittoria e persino una Rose d’Or, segno di un successo che travalica i confini americani.
La macchina comica
La sua forza è l’alchimia. La trama “da fiaba” (una ragazza qualunque che entra in un attico altolocato e lo rivoluziona) è solo il telaio: sopra ci corrono battute a mitraglia, gag visive, running joke sul divario di classe, sulla moda, sullo snobismo anglo-americano che si scioglie davanti all’umanità “troppo umana” di Fran.
Anche la sigla diventa parte della narrazione: The Nanny Named Fran, scritta e cantata da Ann Hampton Callaway (con i cori della sorella Liz), è un micro-riassunto musicale che ti porta dal Queens all’Upper East Side prima ancora della prima battuta.
La sigla farà il giro del mondo, restando una delle sigle TV più riconoscibili per una sitcom dei ’90.
La ‘trascreazione’ che ha fatto scuola
Quando arriva in Italia il 26 giugno 1995 su Canale 5 (poi dal 1998 su Italia 1), La Tata viene fortemente identificata come una ragazza che nasce dalle nostre parti: Fran Fine diventa Francesca Cacace, origine ciociara e di fede cattolica (al posto dell’ebraicità newyorchese); Maxwell resta Sheffield; la madre Sylvia si trasforma nella Zia Assunta.
L’adattamento italiano è coordinato per Mediaset da Elena Sansonetti, con il doppiaggio realizzato da Studioimmagine. La direzione resta a Guido Leoni fino alla stagione 5; nella stagione 6 passa a Massimo Corizza e Lorenza Biella. Il cambio di rotta in cabina di doppiaggio porta anche qualche incoerenza narrativa: alcune traduzioni della s6 non tengono conto delle scelte di adattamento consolidatesi nelle stagioni precedenti.
Parallelamente, i dialoghi vengono ripensati: le allusioni, i riferimenti e le ricorrenze ebraiche della narrazione originale cedono il passo a rimandi alla cultura italiana e al nostro immaginario pop.
È un caso da manuale di transcreation: l’adattamento culturale spinto per avvicinare tono, riferimenti e umorismi al pubblico italiano. Funziona talmente bene da diventare cult… e da generare qualche incoerenza (festività ebraiche “ribattezzate“, flashback con continuità ballerina). È una scelta consapevole dei dialoghisti e della direzione del doppiaggio, spesso citata come uno degli adattamenti più invasivi – ma decisamente riusciti – degli anni ’90.
L’Italia che amava le sit-com
Il successo de La Tata però si inserisce in un panorama molto più ampio, quello dell’Italia dei ’90 adora le sitcom americane. Ci vuole poco per contestualizzare meglio, vi basti pensare che in pochi anni, al di là del trionfo delle soap opera (tipo Beautiful) o le telenovelas argentine trasmesse da Rete 4, vediamo sfilare Sposati… con figli (su Canale 5 dal 1991), Willy, il principe di Bel-Air (su Italia 1 dal 1993), 8 sotto un tetto / Family Matters (da giugno 1994 su Canale 5/Italia 1), e più avanti Friends (dal 23 giugno 1997 su Rai 3).
Sono serie con ritmi veloci, famiglie imperfette, linguaggi teen e una scrittura brillante che fa da shock culturale a chi, in Italia, era cresciuto con il family classico anni ’80. Il nostro paese tenta di inseguire il filone strizzando l’occhio all’altra parte del mondo con Nonno Felice, Io e Mamma, Un medico in famiglia, Casa Vianello, titoli che indiscutibilmente sono rimasti nella memoria del pubblico.
La Tata si infila in questa corrente come titolo-ponte: americano nell’impianto, ma capace – grazie all’adattamento – di “italianizzarsi” senza perdere la verve originale. Un’impresa ardua.
L’iconica estetica 90’s diventa racconto
Una delle attrazioni più iconiche lasciate da La Tata riguarda la sua estetica tipicamente 90’s: minigonne, animalier, spalle strutturate, tacchi e un pantone di colori che buca lo schermo.
Questo lavoro di caratterizzazione visiva diventa centrale al punto che la serie porta a casa una vittoria agli Emmy nell’area costumi e resta, ancora oggi, un riferimento fashion citatissimo da chi ha guardato o vissuto l’epoca di metà anni ’90 fino a riviste rinomate (Vogue, WWD, InStyle hanno “riletto” quei look a trent’anni di distanza).
I mean look at the material ✨ pic.twitter.com/znxIP68pVi
— LOUDgossip (@LOUDgossip) November 3, 2025
A conferma di quanto la televisione di un’epoca abbia parlato anche con il suo costume, rendendo la moda parte del personaggio e – soprattutto – la usa per smontare stereotipi: frivola in apparenza, ma sempre padrona della scena.
La lunga coda del successo alimenta una memoria collettiva
In Italia, dopo il ciclo Canale 5/Italia 1, La Tata ha continuato a vivere tra repliche e nuovi passaggi (nel tempo anche su Paramount Channel, Fox, VH1, canali tv poi chiusi negli ultimi anni), alimentando una memoria collettiva trasversale: chi l’ha scoperta negli anni ’90, chi l’ha recuperata da teenager, chi la binge-guarda per nostalgia.
A livello internazionale la disponibilità in streaming ha rilanciato il culto: negli USA l’intera serie è stata resa disponibile su piattaforme come HBO Max e Peacock, contribuendo a far scoprire la sitcom a una generazione che non era nata quando Fran bussava alla porta degli Sheffield. In Italia è possibile recuperarla su Prime Video e Apple TV+ e sul canale Sony One – Serie da ridere su Samsung Tv Plus, mentre su YouTube è aperto un canale seguito da oltre 53mila iscritti con degli ‘snack’ ripresi dalle 6 stagioni con focus sui personaggi principali.
Perché rivederla oggi?
Rivista oggi, La Tata resta spudoratamente pop ma sorprendentemente moderna. Dentro lo slapstick c’è la satira di classe, dentro la frivolezza una dichiarazione d’identità (femminile e culturale), dentro il rom-com una lezione di ritmo che molte comedy contemporanee inseguono. È la prova che un prodotto potentemente anni ’90 può invecchiare bene quando tiene insieme personaggi, scrittura e segno visivo.
E che quella stagione di sitcom USA in Italia non fu un semplice prestito: fu letteralmente un’educazione alla comicità che ha plasmato il nostro modo di guardare (e fare) televisione.






