Sotto Il Rifugio Atomico si nasconde un bunker… di Carta: la nuova serie Netflix piace ma lascia perplessi

Nata dai creatori de La Casa di Carta, Il Rifugio Atomico immagina una guerra globale e un gruppo di miliardari pronti a vivere in un bunker extra lusso per sopravvivere. Tutto avvincente e accattivante: eppure, dalle tute alla guerra tra classi le similitudini con La Casa De Papel sono troppe

Riprovarci. È questa la parola d’ordina di Alex Pina ed Ester Martinez Lobato, meglio noti rispettivamente come il creatore e una delle sceneggiatrici de La Casa di Carta e Berlino, due dei maggiori successi di Netflix degli ultimi anni (soprattuto il primo, diventato un fenomeno che ha sbancato in tutti i Paesi in cui la piattaforma è disponibile). Riprovarci, dicevamo, perché la loro nuova serie tv, Il Rifugio Atomico, è il tentativo di applicare più o meno gli stessi concetti alla base del format de La Casa de Papel su un altro racconto, più ambizioso per produzione ma, spiace dirlo, meno coraggioso in termini di idee.

Un bunker e dei milionari: cosa potrà andare storto?

La trama: in un mondo in cui la tensione geopolitica è alle stelle e ogni conflitto potrebbe generare un’escalation pericolosa, ad un gruppo di miliardari viene data un’opportunità: acquistare per se stessi e le loro famiglie un posto in un bunker segreto sotterraneo, dotato di ogni comfort e capace di resistere a una possibile guerra nucleare per una decina di anni.

Quando i timori di una guerra mondiale diventano realtà, il bunker accoglie tutti coloro che hanno pagato per entrarvi, tra cui due famiglie, una volta molto legate e oggi divise dal dolore di una tragedia. Nonostante tutte le comodità al suo interno, il bunker diventa presto una prigione dorata, dove segreti, tensioni e confessioni emergono cambiando per sempre rapporti e alleanze. La fine del mondo, insomma, andrà a toccare anche loro, seppur in modo differente rispetto a chi si trova in superficie.

Il bunker di carta

L’operazione de Il Rifugio Atomico, lo abbiamo accennato, è molto ambiziosa. Netflix ha affidato a Vancouver Media (la casa di produzione della serie, già dietro La Casa di Carta) il compito di realizzare un prodotto distopico il cui sguardo non fosse quello tipico delle serie post-apocalittiche.

Tutto il racconto (al netto di flashback e altre scene che non vi spoileriamo) è ambientato nel rifugio che dà il titolo alla serie: uno spazio enorme, dotato di ogni lusso (dal ristorante alla spa), che affascina lo spettatore anche solo per l’attenzione voluta nel curare le scenografie.

I colori dominanti, arancione e verde, dominano per tutti gli otto episodi: sono i colori delle tute indossate dalle due parti che scoprirete nel corso della serie. Gli arancioni sono coloro che gestiscono il bunker, i verdi coloro che lo vivono e che hanno pagato. Servitori e padroni, classi sociali a confronto e una gerarchia che, episodio dopo episodio, non è per forza quella che ci aspetteremmo di vedere.

Ne Il Rifugio Atomico tutto è molto curato, visivamente, dimostrando una grande attenzione per un progetto che punta senza neanche negarlo troppo a diventare una hit della piattaforma. Situazione molto prevedibile. Eppure, quanto vi abbiamo appena scritto non vi ricorda… La Casa di Carta?

Tute, scontri, piani ai limiti dell’assurdo: manca il Professore

Perché sì, Il Rifugio Atomico, pur riuscendo a catturare la nostra attenzione fin dal primo episodio (e garantendosi una visione successiva anche grazie al plot twist che esso ci riserva), dimostra presto un attaccamento quasi maniacale da parte dei suoi creatori a quanto aveva già funzionato ne La Casa di Carta.

A partire dalle irrinunciabili tute (rosse ne LCDC, qui verdi e arancioni), ormai quasi un marchio di fabbrica di alcuni cult targati Netflix (la Pink Guards di Squid Game sono diventate anche loro iconiche); ma anche l’ossessione per l’utilizzo dello stratagemma narrativo in cui ogni situazione di rischio per alcuni personaggi si risolve con un escamotage inserito appositamente per garantirsi una prosecuzione senza intoppi.

E poi, il grande tema caro ad Alex Pina: la guerra tra classi e il potere dei soldi. Anche ne Il Rifugio Atomico, fin dai primi minuti, l’autore rende chiara la sua idea di voler analizzare come, oggi, i soldi possano davvero comprare tutto, anche la sopravvivenza.

Al tempo, stesso, però, con il suo sguardo provocatorio, si diverte a immaginare un mondo in cui quell’1% dei più ricchi del pianeta si trova di fronte all’unica situazione che i soldi non possono risolvere, ovvero il confronto con i fantasmi del proprio passato. E con qualcuno pronto ad approfittarne.

L’effetto “Ancora uno” è raggiunto, ma resta un dubbio

Il mix è vincente: Il Rifugio Atomico, al netto di una parte centrale un po’ piatta, si lascia vedere un episodio dietro l’altro, senza sosta. E l’episodio conclusivo, in cui Pina e Martinez Lobato danno il meglio di loro stessi forti delle esperienze passate, è uno spasso per il pubblico.

A fine visione resta però il dubbio di non aver visto altro che un aggiornamento de La Casa di Carta, pur in un contesto differente. In altre parole, le dinamiche, le rivelazioni e anche i dialoghi o i monologhi interiori dei personaggi fanno parte di una struttura che il pubblico di Netflix ha già conosciuto.

Non è stato fatto altro, dunque, che prendere quell’impalcatura e costruirle intorno nuove stanze, rispettando però un modello originale che di fatto non cambia. Il Rifugio Atomico è questo: una novità apparente che si guarda troppo spesso indietro, suscitando sensazioni contrastanti.

E così, tra situazioni al cardiopalma, spiegoni rassicuranti e un tocco di romanticismo post-apocalittico, ci ritroviamo in un bunker in cui il verde unito all’arancione dà il rosso: quello dell’ansia, della passione, ma anche delle tute di un furto alla Zecca di Stato.

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