

Dai pionieri di Antenna 3 ai network di oggi: come la Lombardia ha inventato, trasformato e mantenuto viva la televisione locale.
Per oltre vent’anni la televisione italiana ha avuto un solo nome: RAI.
Dal 3 gennaio 1954, giorno della sua nascita ufficiale, la TV di Stato è stata tutto: scuola, palco, finestra sul mondo. Un mezzo pensato per unire un Paese ancora diviso da dialetti e mentalità, con un obiettivo tanto ambizioso quanto nobile — educare gli italiani e accompagnarli verso la modernità.
Ma dietro quella patina di eleganza e ordine si nascondeva un equilibrio fragile, più politico che culturale. La RAI era il regno della cosiddetta lottizzazione: la Democrazia Cristiana sul Primo canale, i socialisti sul Secondo, e ogni telegiornale calibrato al millimetro per non scontentare nessuno.
Un sistema in cui ogni cosa aveva il suo posto. Solo che, come spesso accade in Italia, la rivoluzione era già partita senza chiedere permesso.
Le prime crepe nel monopolio e l’inizio di una rivoluzione
Alla fine degli anni Sessanta, mentre Carosello dettava il ritmo delle serate e le famiglie si sedevano religiosamente davanti al televisore, qualcuno iniziò a chiedersi: “E se provassimo a fare TV per conto nostro?”
Piccoli imprenditori, tecnici radiofonici, appassionati del fai-da-te cominciarono a sperimentare con il cavo, un territorio grigio dove la legge non diceva né sì né no.
Nascono così esperienze pionieristiche come Telenapoli e Telebiella: poche telecamere, un trasmettitore e tanta faccia tosta. Trasmettevano programmi locali, interviste, notizie di quartiere. In apparenza piccole follie, in realtà le prime vere ribellioni contro il monopolio.
Quelle TV di provincia parlavano la lingua della gente: spontanea, diretta, senza filtri. In un’Italia ancora dominata dal bianco e nero istituzionale della RAI, erano come spruzzi di colore imprevisti. E più si diffondevano, più diventava evidente che il pubblico voleva qualcosa di nuovo, di più vicino, di più libero.
Il sistema cominciò a scricchiolare. E presto, crollò del tutto.
28 luglio 1976: il giorno in cui cambiò la TV italiana
La data è da segnare in rosso: 28 luglio 1976.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 202, sancì la fine del monopolio RAI per le trasmissioni locali. Una decisione che legalizzò, più che rivoluzionò, quello che già stava succedendo: le antenne private si moltiplicavano, i cittadini volevano la loro voce.
Fu come togliere un tappo a una bottiglia già pronta a esplodere. In un attimo, chiunque poteva accendere un trasmettitore e diventare emittente. Non c’erano leggi, non c’erano regole: solo entusiasmo, caos e tanta voglia di fare.
Da quel momento nacque il mito dell’etere selvaggio, un periodo in cui tutto era possibile, e niente era davvero proibito. Un po’ di anarchia, genialità e sogni in diretta
Tra il 1976 e i primi anni ’80, l’Italia si trasformò nel più grande laboratorio televisivo d’Europa.
Ovunque comparivano piccole TV locali: alcune trasmettevano da ex sale da ballo, altre da magazzini, altre ancora da appartamenti con l’antenna sul tetto e il mixer in salotto.
I palinsesti erano folli e geniali: film di seconda mano, giochi improvvisati, telegiornali di quartiere, spettacoli musicali, televendite casalinghe. Tutto sembrava amatoriale, ma tutto aveva un’energia nuova. Era la TV del popolo, fatta da chi la guardava.
In mezzo al caos nacquero talenti, idee, linguaggi. Gente che poi sarebbe finita nelle grandi reti imparò lì, tra un microfono gracchiante e un jingle suonato in diretta.
E se oggi parliamo di televisione commerciale, è perché in quegli anni qualcuno, tra una sigaretta e un nastro VHS, capì che quella anarchia poteva diventare un business.
Lombardia: il cuore pulsante della rivoluzione
Se c’era un posto dove questa rivoluzione poteva esplodere, era la Lombardia.
Milano era già il motore economico d’Italia: fabbriche, giornali, pubblicità, idee. Qui si incrociavano i soldi, le tecnologie e le menti giuste per trasformare un sogno di provincia in un’industria vera.
Gli editori milanesi – Mondadori, Rusconi, Rizzoli – fiutarono presto l’occasione. Capirono che la TV non era solo intrattenimento, ma il futuro dell’informazione e della pubblicità. Investirono, sperimentarono, crearono connessioni tra giornali e nuove reti.
E, a sorpresa, anche la politica lombarda si schierò a favore del pluralismo. Pur governata dalla Democrazia Cristiana, la Regione chiese più libertà d’espressione e un diritto di accesso per le realtà locali.
Insomma, una miscela perfetta: soldi, coraggio e voglia di rompere le regole.
È da qui, dall’etere lombardo, che nasce la televisione italiana moderna. Da quei garage e da quelle antenne arrugginite sarebbe partita l’onda lunga che, di lì a poco, avrebbe travolto il paese intero.
La Timeline della TV ribelle (1966–1990)
| Anno | Evento Legale/Regolamentare | Tappe |
| 1966 | – | Nasce a Napoli Telediffusione Italiana Telenapoli (via cavo). |
| 1972 | – | Nasce Telebiella, simbolo della sfida al monopolio. |
| 1973 | – | Nasce Telemilano (via cavo), futuro nucleo di Canale 5. |
| 1975 | Legge n. 103, Riforma della RAI. | Nasce Telelombardia. |
| 1976 | Sentenza n. 202 della Corte Costituzionale (28 luglio) | Nascono Telenova e decine di altre emittenti locali. |
| 1977 | – | Nasce Antenna 3 Lombardia a Legnano. |
| 1978 | – | Silvio Berlusconi acquisisce Telemilano e la trasforma in emittente via etere. |
| 1980 | – | Telemilano diventa Canale 5 e inizia a trasmettere su scala nazionale. |
| 1984 | Decreti Berlusconi, che consentono alle reti Fininvest di continuare a trasmettere. | Fininvest acquisisce Rete 4, consolidando il suo network a tre reti. |
| 1990 | Legge n. 223 (Legge Mammì), che regolamenta il sistema radiotelevisivo. | Il duopolio RAI-Fininvest viene formalmente riconosciuto. |
I giganti di Milano – Le tre anime della TV lombarda
Nel caos creativo dell’etere lombardo degli anni settanta, tre emittenti si imposero come i veri motori del cambiamento.
Non erano solo canali televisivi: erano modelli culturali, tre modi diversi di interpretare la libertà appena conquistata.
C’erano quelli che puntavano sullo show e sul pubblico, quelli che scommettevano sulla passione sportiva e quelli che volevano dare voce ai valori e alle comunità.
Da Antenna 3 Lombardia, Telelombardia e Telenova nacquero i tre archetipi della televisione italiana moderna: il varietà popolare, il talk specializzato e la TV identitaria. Tre filosofie diverse, ma unite da un’unica missione: trasformare la televisione in un’esperienza che parlasse davvero alla gente.
Antenna 3 Lombardia – L’alternativa con i riflettori puntati
L’anno è il 1977, la location un ex capannone industriale a Legnano.
Qui nasce Antenna 3 Lombardia, da un’idea del vulcanico Renzo Villa, uno che di televisione aveva già respirato l’odore dei cavi e dei riflettori a Telealtomilanese. Con lui, un alleato d’eccezione: Enzo Tortora, volto amatissimo ma insofferente alle regole rigide della RAI. Insieme decidono di fare qualcosa che, all’epoca, suonava come pura follia: creare una TV locale con standard nazionali.
Antenna 3 non voleva essere solo la televisione del quartiere, ma una vera e propria alternativa professionale al servizio pubblico.
Lo Studio 1 di Legnano – capace di ospitare più di 1.200 persone – diventò presto un simbolo: un’arena dove il pubblico non era spettatore, ma parte dello spettacolo. L’emittente trasmetteva già a colori, quando la RAI ancora esitava a fare il salto, e puntava su una produzione curata, ritmata, pop.
Nel suo palinsesto prendevano vita programmi destinati a diventare piccoli cult lombardi: La bustarella di Ettore Andenna, Bingooo condotto da Villa in persona, e il travolgente Circo Pomofiore, il talent-show ante litteram dove nacquero carriere e tormentoni.
Ma Antenna 3 non era solo varietà: con Telebigino, il cantautore e professore Roberto Vecchioni aiutava in diretta gli studenti con i compiti. Un’idea semplice ma rivoluzionaria per l’epoca, che mescolava intrattenimento e utilità.
Negli studi di Legnano passarono volti destinati a diventare icone: Teo Teocoli, Massimo Boldi, Giorgio Faletti, Zuzzurro e Gaspare, Milly Carlucci. Era una fucina di talenti, un vivaio che anticipava la TV degli anni ’80.
Ma tanta ambizione aveva un prezzo: costi altissimi, produzione intensiva, e una concorrenza sempre più agguerrita. Nel 1987, Antenna 3 fu travolta dai debiti e chiuse, ma lasciò un’eredità enorme.
La sua caduta segnò la fine dell’epoca pionieristica e l’inizio del duopolio RAI–Mediaset. Il sogno di Legnano, però, aveva già acceso la miccia: da quel punto in poi, nessuno avrebbe più guardato la TV nello stesso modo.
Telelombardia – Quando il tifo diventa spettacolo
Se Antenna 3 aveva inventato l’intrattenimento regionale, Telelombardia scoprì un’altra miniera d’oro: il calcio.
Nata nel 1975 grazie all’ingegnere Luciano Porilli, l’emittente passò di mano più volte — persino sotto la proprietà dell’imprenditore Salvatore Ligresti — fino a trovare la sua identità definitiva con Sandro Parenzo, che la trasformò nel perno del gruppo Mediapason.
La grande intuizione arrivò nel 1987: Qui Studio a Voi Stadio (QSVS), un format che avrebbe riscritto le regole del talk sportivo.
In un’Italia senza pay-tv e con i diritti limitati, QSVS offriva una novità assoluta: il commento in diretta minuto per minuto delle partite, con inviati sui campi e dibattiti incandescenti in studio.
Ma la vera rivoluzione fu un’altra: la nascita del giornalista tifoso.
Personaggi come Tiziano Crudeli (Milan) ed Elio Corno o Gian Luca Rossi (Inter) trasformarono la cronaca sportiva in puro intrattenimento.
Narratori neutrali? Niente affatto! Tifosi con il microfono! esultavano, si disperavano, litigavano, urlavano — e il pubblico li adorava.
Il calcio diventava teatro, la passione diventava contenuto.
Quel modello, all’inizio guardato con sospetto, fece scuola in tutta Italia: nacquero imitazioni, varianti, spin-off.
E mentre le altre reti chiudevano o venivano assorbite, Telelombardia continuava a crescere, fino ad acquisire Antenna 3 nel 2004 e trasferirsi in un moderno centro di produzione nel quartiere Bovisa.
Da lì, la rete consolidò un impero regionale e un’identità fortissima: quella di una TV che sapeva parlare alla pancia e al cuore dei lombardi, con la stessa passione che si respira in curva la domenica.
Telenova – La televisione con l’anima
Nel mare di TV commerciali nate per intrattenere, Telenova scelse una rotta completamente diversa.
Fondata nel 1976 come NOVECO TV, fu un progetto del gruppo San Paolo e del settimanale Famiglia Cristiana. Il suo DNA era chiaro fin dall’inizio: una televisione cattolica, vicina ai valori e alla comunità.
Ma guai a definirla “solo religiosa”: Telenova è stata, e rimane, una delle emittenti più intelligenti e versatili del panorama lombardo.
La sua programmazione si muoveva tra informazione, attualità, approfondimento sociale e spirituale.
Ogni giorno trasmetteva in diretta la Messa dal Duomo di Milano, diventando la voce della Diocesi. Ma sapeva anche aprirsi al mondo esterno, miscelando fede e intrattenimento con sorprendente equilibrio.
Tra gli anni ’80 e ’90 ospitò programmi che lanciarono nuovi volti come Barbara d’Urso e Memo Remigi, e diede spazio persino a format sportivi come Novastadio, con commentatori di lusso come Sandro Mazzola e Bruno Pizzul.
E poi, quando nessuno se lo aspettava, ecco la mossa pop: anime giapponesi in palinsesto, una scelta che conquistò il pubblico più giovane e dimostrò che anche una TV “valoriale” poteva essere moderna, curiosa e competitiva.
Negli anni successivi, Telenova si è affiliata al circuito cattolico Corallo e ha collaborato con TV2000, mantenendo la sua vocazione originaria ma con lo sguardo sempre aperto.
Quando il mondo televisivo correva già verso la commercializzazione estrema, Telenova è rimasta la prova vivente che si può fare televisione locale senza rinunciare a un’anima.
Tre strade, un’unica rivoluzione
Antenna 3, Telelombardia e Telenova non furono solo tre emittenti.
Furono tre esperimenti di futuro, nati nello stesso luogo e nello stesso tempo, ma con tre visioni opposte.
La prima puntava sulla spettacolarità e sul pubblico, la seconda sul tifo e sulla passione collettiva, la terza sull’identità e sui valori.
Insieme, disegnarono la mappa della televisione italiana moderna, quella che oggi diamo per scontata, ma che allora non esisteva ancora.
E tutto cominciò da qui, da Milano, città che non inventò solo la moda o la pubblicità, ma anche la TV libera, quella che parla il linguaggio della gente, mescola cultura e intrattenimento, e sa accendere gli schermi come nessun’altra.
Le tre grandi pioniere a confronto
| Emittente | Anno di Nascita | Fondatori Chiave | Modello/Archetipo | Programmi Iconici | Eredità/Influenza |
| Antenna 3 Lombardia | 1977 | Renzo Villa, Enzo Tortora | Intrattenimento da rete generalista | La bustarella, Bingooo, Telebigino | Modello della TV commerciale di qualità, fucina di talenti per le reti nazionali. |
| Telelombardia | 1975 | Luciano Porilli | Nicchia verticale (Sport) | Qui studio a voi stadio (QSVS) | Invenzione del talk show sportivo in diretta e della figura del “giornalista tifoso”. |
| Telenova | 1976 | Gruppo Editoriale San Paolo | Comunità di valori | Novastadio, S. Messa dal Duomo | Modello di TV legata a una specifica comunità (cattolica), capace di unire missione e palinsesto generalista. |
Le TV che hanno dato voce alle province lombarde
Se Milano è stata la culla della rivoluzione televisiva, il vero miracolo dell’etere lombardo è che quella scintilla non si è fermata al capoluogo.
Nel giro di pochi anni, tutte le province – da Bergamo a Brescia, da Varese a Cremona – hanno acceso le loro antenne, creando un mosaico incredibilmente vario di televisioni di prossimità, fatte per raccontare la vita quotidiana del territorio, le notizie del quartiere, le passioni locali.
A differenza dei giganti milanesi, che puntavano a un pubblico regionale o nazionale, queste emittenti hanno scelto di restare vicine alla loro gente, spesso in collaborazione diretta con la stampa locale.
I giornali fornivano credibilità e struttura commerciale; le TV, in cambio, offrivano immagini, volti e un contatto immediato.
Era una sinergia perfetta tra carta e schermo, tra parola scritta e parola parlata, che avrebbe costruito un nuovo modo di fare informazione “dal basso”.
Bergamo – L’Eco che diventa immagine
A Bergamo, il legame tra giornalismo e televisione è stato naturale, quasi inevitabile.
Il 15 settembre 1976 nacque Tele Bergamo, per iniziativa del fotografo Gianni Colleoni, ma il destino dell’emittente cambiò quando entrò in scena L’Eco di Bergamo, il quotidiano più autorevole della provincia.
Da una semplice collaborazione editoriale si passò presto a una vera e propria integrazione industriale: il gruppo editoriale acquisì la TV, trasformandola in Bergamo TV, dando vita a uno dei primi poli multimediali locali italiani.
Il cuore dell’emittente era – e resta – l’informazione iper-locale: servizi sul territorio, volti riconoscibili, attenzione per ogni quartiere. Il telegiornale Bergamo Notizie divenne un appuntamento fisso, mentre la grande passione sportiva trovava spazio in Tutto Atalanta, il programma che ha accompagnato la squadra nerazzurra in tutte le sue stagioni, dalla Serie B ai fasti europei.
Ma Bergamo TV non era sola. Accanto a lei si muovevano altre piccole realtà come Antenna 2 e TeleClusone, che raccontavano la provincia più montana e le comunità della Val Seriana. Tutto contribuiva a creare un ecosistema vivissimo, in cui ogni paese sentiva di avere la sua voce.
Brescia – La forza della televisione dei bresciani
A Brescia, il modello si ripeté quasi alla lettera.
Nel 1979 nacque Teletutto, la TV “dei bresciani, tra i bresciani, con i bresciani”, come recita ancora oggi il suo motto.
L’emittente è di proprietà di Editoriale Bresciana, lo stesso gruppo del Giornale di Brescia, e la sinergia tra carta e schermo è diventata la sua cifra stilistica.
Il palinsesto è costruito su misura per il territorio: notiziari locali, talk show come Punti di Vista, e programmi che raccontano tradizioni e cultura popolare, come In piazza con noi.
Teletutto ha sempre fatto della quotidianità la sua forza: i volti, le storie, i dialetti e le feste di paese diventavano televisione, con una cura per la realtà locale che la RAI non poteva nemmeno imitare.
Ma la storia bresciana comincia ancora prima. Già nel 1976 esisteva Brescia Telenord, che trasmetteva film, cartoni e varietà prima di chiudere i battenti e lasciare spazio al secondo canale di Teletutto, TT2.
E poi c’erano le realtà più piccole ma resistenti, come RTB – Radio Televisione Bresciana, che con la sua programmazione generalista e la copertura capillare ha dato un contributo enorme al pluralismo mediatico della zona.
Varese e Como – Le voci del confine
Nelle province del nord-ovest lombardo, dove l’Italia sfuma nella Svizzera, la televisione locale ha assunto un ruolo particolare: raccontare una frontiera viva, fatta di pendolari, affari e storie che attraversano il confine ogni giorno.
A Varese, nel 1979 nasce Rete 55, che in breve tempo diventa la voce ufficiale della città.
La rete si distingue per un’informazione incisiva e per l’attenzione costante allo sport: dalle glorie della pallacanestro varesina alle cronache calcistiche di Pro Patria e Legnano.
Con il passare degli anni, Rete 55 cresce fino a raggiungere un pubblico regionale, senza mai perdere il suo DNA cittadino.
A Como, invece, prende forma Espansione TV, fondata nel gennaio 1982 da Maurizio Giunco e Felice Bernasconi.
All’inizio ritrasmetteva programmi di altre reti, ma ben presto sviluppò un’identità tutta sua, centrata sull’informazione lariana e sui temi del confine italo-svizzero.
Programmi come Border – Storie di confine raccontavano la vita quotidiana tra due mondi, unendo giornalismo, cronaca e sensibilità sociale.
Negli anni ’90 Espansione TV riuscì persino ad acquisire, per un periodo, lo storico marchio Antenna 3, a conferma della sua crescita e del suo peso nel panorama lombardo.
Cremona e Lodi – Le voci della Bassa Lombardia
Anche la Bassa ha avuto la sua voce.
A Cremona, dal 1984, Telecolor ha portato avanti una linea editoriale sorprendentemente originale: informazione locale, certo, ma anche un’attenzione speciale per la salute e il benessere.
Programmi come Box Salute e Medicina Amica hanno costruito un pubblico fedele e intergenerazionale, anticipando il boom dei format medicali molto prima che diventassero mainstream.
E non mancavano le sorprese: proprio qui muoveva i primi passi il mitico televenditore Roberto “Baffo” Da Crema, che sarebbe poi diventato un’icona nazionale.
Nel territorio tra Lodi e Crema, la storia è più complessa ma altrettanto significativa.
Nata nel 1983 come Telesoresina, l’emittente cambiò più volte nome e assetto – Telesolregina, poi Lodi Crema TV, fino a diventare Lombardia TV.
Una vera odissea di rebranding che racconta bene il destino di molte micro-TV lombarde: piccole realtà nate con entusiasmo, poi costrette a fondersi per sopravvivere in un mercato sempre più competitivo.
Queste fusioni hanno permesso di unire risorse, coprire bacini d’utenza più ampi e, in molti casi, evitare la scomparsa totale.
Un puzzle di libertà locale
Il mosaico delle televisioni provinciali lombarde racconta meglio di qualsiasi legge o statistica la forza identitaria dell’etere locale.
Ogni emittente, da Bergamo TV a Telecolor, da Rete 55 a Espansione TV, ha costruito un piccolo mondo autonomo, dove la televisione tornava a essere ciò che era all’inizio: uno specchio della comunità.
Mappatura delle storiche principali emittenti per provincia Lombarda
| Provincia | Emittente Principale | Anno di Nascita | Legame con Editoria Locale | Note/Specificità |
| Milano | Antenna 3, Telelombardia, Telenova | 1977, 1975, 1976 | Telenova (Famiglia Cristiana) | Archetipi della TV commerciale nazionale. |
| Bergamo | Bergamo TV | 1976 | L’Eco di Bergamo | Forte sinergia stampa-TV, focus su informazione locale e Atalanta. |
| Brescia | Teletutto | 1979 | Giornale di Brescia | Modello di “TV di territorio”, forte legame con la comunità locale. |
| Como | Espansione TV | 1982 | – | Informazione locale e transfrontaliera (confine con la Svizzera). |
| Varese | Rete 55 | 1979 | – | Focus su cronaca locale e sport (basket Varese, calcio Pro Patria). |
| Cremona | Telecolor | 1984 | – | Specializzazione su salute e benessere, oltre all’informazione locale. |
| Lodi | Lodi Crema TV (ora Lombardia TV) | 1983 (come Telesoresina) | – | Esempio di consolidamento di emittenti micro-locali. |
Pubblicità, Televendite e Palinsesti: quando la TV cominciò a vendere sogni
Dietro ogni grande rivoluzione c’è sempre una spinta economica.
E quella che ha trasformato la televisione lombarda non è nata da un editto o da una legge, ma dal più semplice dei bisogni: sopravvivere.
Le TV locali non avevano canone, né contributi pubblici. Dovevano cavarsela da sole, e lo fecero con un’idea semplice e potentissima: vendere spazio e inventarsi nuovi modi per riempirlo.
Da questa necessità nacque un nuovo modello economico che avrebbe cambiato per sempre il modo di pensare la televisione. Lì dove la RAI aveva il dovere di “educare”, le TV private si diedero un solo obiettivo: coinvolgere e monetizzare.
La pubblicità diventò il carburante, i palinsesti la macchina, le televendite il motore che rombava giorno e notte.
Dalla pedagogia al consumo: quando la TV smise di insegnare e cominciò a vendere
Negli anni del monopolio, la pubblicità era quasi un ospite indesiderato.
Il leggendario Carosello, trasmesso dal 1957 al 1977, era l’unico spazio pubblicitario autorizzato in RAI: uno sketch di 1 minuto e 45 secondi seguito da appena 30 secondi di promozione vera e propria.
Il pubblico lo adorava, ma dietro quella formula c’era una filosofia precisa: la pubblicità sì, ma solo se “educata”, limitata, pulita.
Quando arrivarono le TV private, quel muro crollò all’improvviso.
Niente più pudore o cornici morali: gli spot cominciarono a comparire ovunque, in mezzo ai film, tra un varietà e un talk, dentro i cartoni animati.
Era una piccola rivoluzione, ma di quelle che non si tornano indietro.
La televisione passava da strumento di alfabetizzazione nazionale a vetrina della nuova società dei consumi.
Non si trattava più di “imparare”, ma di desiderare, scegliere, comprare.
E la Lombardia, patria dell’impresa e del commercio, diventò il laboratorio perfetto di questo nuovo linguaggio: pubblicità dirette, emozionali, a volte invadenti, ma efficaci come mai prima. Immaginate una TV come un mercato a cielo aperto.
Il fenomeno delle televendite – L’Italia scopre il marketing da salotto
In quel clima di libertà e necessità economica, nacque un formato che sarebbe diventato una delle firme più riconoscibili della TV italiana: la televendita.
Semplice, economica, geniale.
Le emittenti avevano bisogno di riempire ore e ore di programmazione a costi minimi, e qualcuno ebbe l’idea di trasformare quel tempo in un supermercato televisivo: chi pagava, andava in onda.
Così cominciò la magia del “compro in diretta”.
Non c’erano regole, non c’erano copioni: solo una telecamera, un tavolo pieno di prodotti e un conduttore pronto a vendere qualsiasi cosa — materassi, pentole, collane, aspirapolvere, mobili o tappeti persiani.
Nacque un nuovo tipo di star: il venditore-showman.
Personaggi come Roberto “Baffo” Da Crema, partito proprio da Telecolor, o Guido Angeli, con la sua leggendaria frase “Provare per credere!”, divennero volti familiari come attori e conduttori.
Il loro stile era lontano anni luce dalle pubblicità patinate della RAI: voce alta, gesti ampi, tono diretto, un misto tra fiera di paese e spettacolo comico.
Il segreto era tutto nell’urgenza: “Solo per oggi!”, “Ultimi pezzi!”, “Telefonate subito!”.
Le televendite riempivano intere fasce orarie notturne, si finanziavano da sole e facevano guadagnare.
Dietro quell’apparente caos c’era un’intuizione commerciale formidabile: trasformare la televisione in un canale di vendita continua, un format di massa che anticipava, di trent’anni, l’e-commerce e lo shopping in diretta sui social.
Un’idea nata tra Cremona e Milano che finì per colonizzare l’etere italiano, portando il mercato dentro le case.
La costruzione del palinsesto locale – tra film, fede e fatture
Se il cuore era la pubblicità e il motore le televendite, i palinsesti delle TV lombarde erano la loro architettura quotidiana.
Non c’era una strategia industriale, ma un equilibrio pratico tra ciò che costava poco, ciò che attirava pubblico e ciò che faceva guadagnare subito.
- Contenuti a basso costo. Le emittenti riempivano le giornate con film italiani di serie B, spaghetti-western, commedie erotiche, gialli o melodrammi con diritti scaduti. Le copie erano spesso sgranate, ma il pubblico non se ne lamentava: la TV era gratis e “nostra”.
Accanto ai film, cominciarono ad apparire i cartoni animati giapponesi – gli anime – comprati a poco e diventati un cult per un’intera generazione.
Mentre la RAI esitava su Goldrake, le TV lombarde già trasmettevano robot giganti e maghette in orari improbabili, conquistando bambini e ragazzi. - Contenuti a forte impatto locale. Qui la TV tornava a fare il suo mestiere di specchio del territorio. I telegiornali di quartiere, le dirette dagli stadi, i programmi dedicati alle squadre locali: erano questi i momenti in cui la gente si riconosceva sullo schermo. Vedere il proprio sindaco intervistato, o la propria squadra celebrata dopo una vittoria, creava un legame potentissimo con la comunità e con gli inserzionisti locali, che trovavano finalmente uno spazio pubblicitario a misura del loro pubblico.
- Contenuti a redditività diretta. Non solo televendite: le emittenti locali inventarono un’intera gamma di format pensati per monetizzare il pubblico in tempo reale. Quiz con telefonate a pagamento, programmi di astrologia e cartomanzia, rubriche di dediche musicali — veri e propri “precursori” dell’interattività. Chi chiamava pagava, chi andava in onda guadagnava. Un’economia circolare, primitiva ma efficace, che teneva in piedi decine di emittenti in tutta la regione.
In pochi anni, da garage e capannoni nacque un sistema economico vero, con agenzie pubblicitarie locali, reti di distribuzione, concessionarie e imprenditori che impararono a fare televisione vendendo prodotti, idee e sogni.
Era l’alba di un nuovo modo di vivere l’etere (e di farlo fruttare).
Da Milano 2 al paese intero, quando la TV locale diventò impero
Alla fine degli anni ’70, l’energia dell’etere lombardo era al massimo. Centinaia di emittenti locali, decine di modelli diversi, talenti, idee, improvvisazione, passione. Ma quell’ecosistema così vivace stava per essere sconvolto da un uomo che ne avrebbe riscritto per sempre le regole.
Il suo nome era Silvio Berlusconi.
E la sua intuizione non fu quella di competere con le televisioni locali: fu di usarle come mattoni per costruire un impero nazionale.
Una mossa che avrebbe cambiato il modo di fare TV, il modo di fare pubblicità, e perfino il modo di pensare all’informazione.
Da Telemilano a Canale 5 – Il sogno che partì da un quartiere
La storia comincia nel 1973, in un quartiere di Milano che era quasi una città nella città: Milano 2, il complesso residenziale costruito da Berlusconi stesso.
All’interno di quel nuovo microcosmo, dove ogni dettaglio era pensato per la vita moderna, nacque una piccola TV via cavo: Telemilano.
All’inizio trasmetteva solo per i residenti del quartiere, ma il progetto aveva già in sé l’idea più grande: una televisione privata che potesse parlare a tutti gli italiani.
Nel 1978, Berlusconi acquisì completamente l’emittente, la convertì alla trasmissione via etere e mise in moto un piano destinato a ribaltare la storia della comunicazione italiana.
Nel 1980, Telemilano cambiò nome in Canale 5: un nome semplice, popolare, immediato, che suonava già come una sfida alla RAI e al suo terzo canale, appena nato.
Da lì, la crescita fu vertiginosa.
Nel giro di pochi anni, attraverso la holding Fininvest, Berlusconi acquisì altre due reti: Italia 1 dal gruppo Rusconi e Rete 4 da Mondadori. Tre canali, un’unica regia, una visione precisa: creare il primo network televisivo nazionale privato.
Una mossa che spazzò via il concetto stesso di “TV locale” e inaugurò l’era dei grandi network.
Il “pizzone”: l’invenzione che aggirò la legge e costruì un impero
C’era però un piccolo problema: la legge.
La famosa sentenza del 1976 permetteva sì le trasmissioni private, ma solo in ambito locale.
Niente interconnessioni nazionali, niente dirette su scala nazionale: in teoria, ogni TV doveva restare confinata nella sua area geografica.
Ma Berlusconi e i suoi collaboratori trovarono la scappatoia perfetta.
Nacque così il leggendario sistema del “pizzone”.
I programmi di Canale 5 venivano registrati su videocassette già pronte – complete di sigle, interruzioni pubblicitarie e spazi per gli sponsor – e spedite in tutta Italia a una rete di emittenti locali affiliate.
Queste emittenti trasmettevano la stessa cassetta nello stesso giorno e alla stessa ora.
Risultato: il pubblico credeva di guardare un’emissione nazionale in diretta, ma in realtà stava assistendo a un gigantesco gioco di sincronizzazione analogica.
Nessuna legge veniva infranta, ma di fatto era nato un network nazionale privato.
Le TV locali diventavano ripetitori, e l’illusione di un’unica grande emittente prendeva forma.
Da lì in poi, il monopolio RAI era solo un ricordo.
L’impatto sulle televisioni locali – il sogno che diventò tempesta
L’ascesa di Fininvest fu un terremoto per le emittenti indipendenti lombarde, quelle che avevano dato origine al fenomeno.
In pochi anni, si trovarono a competere con un colosso che parlava la loro stessa lingua ma con mezzi infinitamente superiori.
- Pubblicità: la nuova guerra dei soldi. Con la nascita di Publitalia ’80, la concessionaria pubblicitaria di Fininvest, arrivò la rivoluzione economica. Publitalia offriva agli investitori un pubblico nazionale e una struttura professionale: spot a orari fissi, target misurabili, pianificazione precisa.
Le aziende nazionali abbandonarono le piccole emittenti per la sicurezza e la visibilità delle reti Fininvest.
Nel 1983, i ricavi pubblicitari del gruppo di Berlusconi superarono addirittura quelli della SIPRA, la concessionaria della RAI.
Era chiaro a tutti: il business della TV non era più locale. - Contenuti: la potenza del catalogo americano. Mentre le TV locali continuavano a mandare in onda vecchi film italiani e cartoni riciclati, Fininvest comprava a valanga diritti di serie americane, soap e blockbuster. Dallas, Happy Days, Love Boat, Dynasty: la televisione italiana non era mai stata così scintillante. Le emittenti locali, con le loro scenografie spartane e i loro talk autoprodotti, cominciarono a sembrare improvvisamente artigianali.
- La scelta: affiliarsi o sparire. Per sopravvivere, molte TV locali decisero di affiliarsi a syndication nazionali come Italia 7, Odeon TV o Europa 7, rinunciando alla propria autonomia in cambio di una programmazione di qualità e di qualche briciola del mercato pubblicitario. Chi invece scelse di restare indipendente dovette reinventarsi: puntare sull’informazione di prossimità, sullo sport cittadino, sui contenuti che nessun network nazionale poteva replicare. Da qui nacque la seconda vita di molte emittenti storiche, più piccole ma ancora radicate nel loro territorio.
La Legge Mammì (1990) – Il punto di non ritorno
Dopo anni di anarchia, nel 1990 arrivò il tentativo di mettere ordine: la Legge n. 223, conosciuta come Legge Mammì.
Doveva regolare il settore, ma finì per fare l’esatto contrario: cristallizzò lo status quo.
La legge, infatti, “fotografò” la situazione esistente: tre reti nazionali pubbliche (RAI) e tre private (Fininvest).
Nulla di più, nulla di meno. In teoria, era la fine del Far West televisivo; in pratica, fu la legittimazione del duopolio.
La normativa obbligava le reti nazionali a dotarsi di un telegiornale e fissava i limiti per le concessioni locali, ma tagliò fuori molte piccole emittenti, schiacciate dai costi e da regole troppo pesanti. L’etere selvaggio degli anni ’70 e ’80 lasciava il posto a un mercato stabile ma concentrato, dove la creatività spontanea delle origini sopravviveva solo ai margini.
Era la fine dell’epoca pionieristica, ma anche l’inizio della televisione come industria nazionale.
Dopo quindici anni di improvvisazione, la TV italiana aveva trovato la sua forma definitiva — e, nel bene e nel male, portava la firma di Milano.
Dalla libertà alla forma: il ciclo che si chiude
Quella che era nata come un’avventura di pionieri si era trasformata in un sistema.
Dalla Telebiella dei ribelli al Canale 5 dell’impero, l’Italia aveva vissuto in meno di vent’anni la sua più grande rivoluzione culturale e tecnologica.
Le televisioni locali lombarde, con le loro antenne arrugginite e i loro palinsesti improvvisati, avevano aperto una strada che ora veniva percorsa da giganti.
Ma la loro eredità non si è mai spenta: la spontaneità, il rapporto diretto con il pubblico, la creatività low-cost (tutti tratti nati nei garage lombardi) sarebbero rimasti per sempre nel DNA della TV italiana.
Perché anche se l’etere non è più “selvaggio”, è da lì che tutto ha cominciato a parlare davvero al Paese intero.
Dal segnale analogico allo streaming: la lunga vita della TV lombarda
Dopo il duopolio e gli anni dell’oro televisivo, la Lombardia è entrata in un’altra epoca di rivoluzione, meno romantica, forse, ma altrettanto radicale. A partire dagli anni 2010, la televisione ha dovuto fare i conti con una nuova sfida: il passaggio dal segnale analogico al digitale terrestre.
Una transizione presentata come il segno della modernità, ma che in realtà ha funzionato come una vera e propria ristrutturazione del mercato, capace di premiare i grandi gruppi e mettere in ginocchio molte storiche realtà locali.
In pochi anni, il modo di trasmettere è cambiato completamente: i vecchi trasmettitori, le frequenze, i canali numerici — tutto è stato ridisegnato. Chi era pronto e strutturato ha cavalcato l’onda. Chi no, è stato travolto.
Il primo switch-off (2010–2012): addio all’analogico
Tra il 2010 e il 2012, la Lombardia ha vissuto il primo grande spegnimento: il passaggio al DVB-T, il nuovo standard digitale terrestre.
Da un giorno all’altro, milioni di telespettatori si sono ritrovati con lo schermo nero e la scritta “nessun segnale“.
Bisognava comprare un decoder, risintonizzare i canali, imparare da capo a usare il telecomando.
Per le emittenti, è stata una corsa contro il tempo.
Il digitale permetteva di ospitare più canali all’interno di un solo multiplex (mux), ma anche di perdere visibilità in un mare di nuove sigle e numerazioni.
Chi prima era sul tasto 10 del telecomando poteva finire al 92, e sparire agli occhi del pubblico.
Dietro la retorica della “modernizzazione” si nascondeva una selezione durissima.
Solo le TV con mezzi tecnici solidi e infrastrutture moderne riuscirono a mantenere la posizione. Le altre dovettero reinventarsi — o scomparire.
Il secondo switch-off (2021–2022): la rivoluzione del 5G
Dieci anni dopo, la storia si ripeté, ma con conseguenze ancora più pesanti.
Tra il 2021 e il 2022 arrivò la seconda grande rivoluzione: lo switch-off della banda 700 MHz, destinata alle reti di telefonia 5G. In pratica, le TV dovettero cedere parte delle frequenze per fare spazio agli smartphone.
Il nuovo standard di trasmissione, MPEG-4, richiese un’altra ondata di aggiornamenti tecnici, decoder più moderni e televisori di nuova generazione.
Molti apparecchi andarono improvvisamente in pensione, e per le piccole emittenti fu un salasso: nuovi impianti, nuove licenze, nuove spese. E, soprattutto, meno spazio per tutti.
Il nuovo Piano nazionale delle frequenze ridusse drasticamente il numero di multiplex disponibili.
Lo Stato mise a bando le licenze regionali, con graduatorie che premiavano i gruppi più solidi — quelli con più dipendenti, patrimonio, e capacità di investimento.
Il risultato? Un altro terremoto per l’etere locale.
Consolidamento e chiusure: la selezione naturale della TV
Questa volta, la tecnologia fu il giudice supremo.
Molte piccole emittenti storiche non riuscirono a superare il taglio e furono costrette a spegnere per sempre le loro antenne.
Canali come ONE TV sparirono dal digitale, mentre altre realtà come Telemonteneve di Livigno o Televalassina di Asso rimasero silenziose per mesi prima di trovare una nuova collocazione.
Il caso più clamoroso fu quello di Telemantova, inserita nel piano del Veneto invece che in quello lombardo: un errore burocratico che tagliò fuori un’intera provincia dal proprio canale di riferimento.
Un cortocircuito paradossale: in nome della digitalizzazione, interi territori persero la loro voce locale.
Ma non per tutti fu un disastro.
I grandi gruppi regionali – come Mediapason, con Telelombardia e Antenna 3 – si mossero con abilità e risorse, ottenendo le posizioni più prestigiose nel telecomando (i cosiddetti LCN, Logical Channel Number) e consolidando il loro ruolo di leader.
Il nuovo etere digitale, insomma, premiò i forti e spazzò via i fragili.
Il presente: una TV tra web, streaming e memoria
Oggi, la televisione locale lombarda vive una nuova fase.
I segnali viaggiano attraverso multiplex regionali gestiti da giganti come Rai Way ed EITowers, e il numero di emittenti è molto più ridotto rispetto agli anni d’oro.
Ma chi è sopravvissuto, ha imparato a evolversi.
Le TV locali non si limitano più a trasmettere via etere: hanno siti web con notizie in tempo reale, dirette in streaming, e una presenza costante sui social, dove costruiscono community, commenti e contenuti verticali.
La televisione lineare non è più l’unico canale: è una delle tante strade per restare connessi con il pubblico.
L’informazione locale è diventata multicanale, interattiva e, in molti casi, crossmediale.
Non è più solo la TV che entra in casa: è il pubblico che porta la TV in tasca, sullo smartphone.
E così, paradossalmente, l’etere locale non è mai stato così globale.
Un nuovo ciclo: dalla parabola all’algoritmo
A quasi cinquant’anni dalla sentenza che liberò le frequenze, la televisione lombarda continua a reinventarsi.
Ogni volta che una tecnologia sembrava condannarla (prima la RAI, poi Fininvest, poi il digitale) ha trovato il modo di adattarsi e rinascere.
Oggi l’arena è diversa: non si combatte più per un canale, ma per un algoritmo, per un posto nel feed, per qualche secondo di attenzione in più.
Ma la missione è la stessa di sempre: raccontare il territorio, parlare alla gente, restare vicini.
Forse il futuro dell’etere non sarà più fatto di antenne, ma di streaming e pixel.
Eppure, dietro ogni live su YouTube, dietro ogni diretta su Facebook o su Twitch, c’è ancora lo spirito di quella televisione nata nei garage lombardi negli anni ’70.
Una TV che non smette mai di reinventarsi e che, in fondo, non ha mai smesso di essere locale anche quando è diventata globale.
L’impatto dello switch-off in Lombardia
| Emittente Storica | Provincia | Stato Pre-Switch-Off (Analogico/Primo DTT) | Stato Post-Switch-Off (2022) | Note |
| ONE TV | Lombardia | Attiva su LCN 79 | Chiusa | Eliminata dal mux EITowers Lombardia nell’ottobre 2024. |
| Videostar HD | Bergamo | Attiva su LCN 87 | Temporaneamente sospesa | Ha abbandonato il mux regionale nel 2024, rimanendo temporaneamente senza trasmissione. |
| Telemonteneve | Sondrio | Attiva | Sospesa per 90 giorni | Ha dovuto interrompere le trasmissioni prima di essere ricollocata. |
| Televalassina | Como | Attiva | Sospesa per 90 giorni | Stessa sorte di Telemonteneve, ha interrotto le trasmissioni per tre mesi. |
| Telemantova | Mantova | Copertura provinciale | Copertura problematica | Inserita nel mux veneto, con gravi problemi di ricezione nella provincia di Mantova. |
| Gruppo Mediapason | Milano | Posizioni LCN primarie | Posizioni LCN primarie (10, 11, 12) | Ha consolidato la sua leadership, assicurandosi i canali più visibili nel mux Rai Way Lombardia. |
Dal garage all’algoritmo: la lunga corsa della TV che ha insegnato all’Italia a raccontarsi
La storia delle televisioni locali lombarde non è solo una cronaca di frequenze, palinsesti o ascolti: è la storia di una rivoluzione culturale, di un territorio che, partendo dai garage di Milano e dai sottoscala delle province, ha infranto un monopolio di Stato e ridisegnato per sempre la mappa mediatica del Paese.
Una rivoluzione nata dal basso, fatta di esperimenti, antenne traballanti e tanta ostinazione, ma che ha cambiato per sempre il modo in cui gli italiani guardano e vivono la televisione.
Oggi quell’avventura è parte della memoria collettiva, ma la sua eredità continua a pulsare sotto le nuove tecnologie, tra una diretta streaming e un video su TikTok.
L’eredità culturale
La Lombardia non è stata semplicemente una regione attiva nella storia della televisione: è stata il laboratorio dove la TV privata ha preso forma.
Qui sono nati i linguaggi, i format e i modelli produttivi che avrebbero poi dominato l’etere nazionale.
C’era il varietà popolare e spavaldo di Antenna 3, con il pubblico in studio e i riflettori puntati sulla gente comune; c’era il talk calcistico urlato e partigiano di Telelombardia, che ha anticipato decenni di intrattenimento sportivo televisivo; c’era la televisione valoriale di Telenova, capace di unire fede, cultura e servizio alla comunità.
Tutti nati come esperimenti locali, tutti diventati modelli. Dall’etere lombardo è uscita una generazione di artisti, autori, tecnici e conduttori che ha formato l’ossatura della TV italiana degli anni ’80 e ’90.
La Lombardia, in sostanza, non ha solo raccontato la televisione: l’ha inventata due volte, prima liberandola, poi professionalizzandola.
Specchio e motore dell’identità locale
Ma le televisioni lombarde non sono state solo un fenomeno mediatico. Sono state (e in parte lo sono ancora) lo specchio e il megafono delle comunità. Hanno raccontato la vita quotidiana quando nessuno lo faceva: le sagre di paese, le piccole cronache di quartiere, le vittorie delle squadre locali.
In un Paese storicamente centrato su Roma e i grandi network nazionali, queste emittenti hanno rappresentato l’Italia dei territori, quella fatta di accenti, dialetti e storie minori che raramente arrivavano sui grandi schermi.
E grazie alla collaborazione con la stampa locale, hanno creato un tessuto informativo fortissimo, dove la TV e il giornale si parlavano, si scambiavano notizie, davano voce alla stessa comunità.
Per anni, la televisione locale è stata il luogo dove i lombardi potevano riconoscersi: vedere il proprio sindaco intervistato, la propria scuola in un servizio, o la propria squadra commentata con passione.
Non solo schermi, ma finestre sulla vita quotidiana.
Le sfide del futuro
Oggi, questo patrimonio culturale si trova davanti a una sfida completamente nuova. Non c’è più solo la concorrenza della RAI o di Mediaset, ma un universo globale fatto di Netflix, YouTube, Amazon Prime, TikTok.
La TV non è più “una”: è ovunque, in ogni formato, su ogni schermo.
Il pubblico è frammentato, i giovani guardano tutto tranne la TV tradizionale, e il modello pubblicitario che per decenni ha sostenuto le emittenti locali è in crisi.
Ma, come spesso è successo nella storia dell’etere lombardo, la risposta non è copiare gli altri, ma tornare a sé stessi.
La forza delle TV locali è sempre stata una sola: la prossimità. L’essere vicini, fisicamente e simbolicamente, alle persone.
Raccontare la città, il quartiere, la piazza. Sono armi potentissime.
Il futuro, quindi, non è imitare i colossi dello streaming, ma trasformarsi in veri hub mediatici territoriali, capaci di essere contemporaneamente in TV, sul web, in radio e sui social. Il telegiornale diventa una clip su Instagram, il dibattito in studio diventa un podcast, la diretta locale si trasmette anche su YouTube.
La nuova frontiera non è l’etere, ma la convergenza.
Chi saprà sfruttare le nuove tecnologie — dai social ai portali di streaming locale — senza perdere il proprio radicamento umano e territoriale, potrà continuare a essere rilevante. Perché in un’epoca di notizie globali e algoritmi impersonali, il racconto del territorio è l’unica cosa che nessuna intelligenza artificiale può replicare.
L’etere che non muore
Dai capannoni di Legnano ai canali digitali di oggi, la televisione lombarda ha attraversato mezzo secolo di rivoluzioni senza mai perdere il suo tratto distintivo: la voglia di raccontare. Ogni epoca ha avuto i suoi strumenti, dal cavo al satellite, dal digitale allo streaming, ma l’anima è sempre la stessa: una TV fatta di passione, comunità e presenza.
La sua storia non finisce con il digitale, anzi, comincia da lì: da una nuova generazione di giornalisti, tecnici e storyteller che oggi porta avanti quello spirito pionieristico con altri mezzi, ma con la stessa energia.
L’etere lombardo non è più selvaggio, ma è ancora vivo, libero e in movimento. E finché ci sarà qualcuno che accende una telecamera per raccontare il proprio territorio, il segnale non si spegnerà mai davvero.





