

Dal caso Hutton alla truffa Relotius, fino al phone hacking di News of the World: un viaggio dentro gli errori che hanno messo in ginocchio le più grandi redazioni del mondo e cambiato per sempre il rapporto tra giornalismo, potere e fiducia pubblica.
Ogni grande emittente pubblica – dalla BBC alla RAI, passando per France Télévisions (ma ve ne potrei scrivere una lunga lista) – vive di un patto non scritto con il pubblico: la fiducia. È il suo vero capitale, più importante delle risorse, delle strutture o degli ascolti. Ma cosa succede quando quel patto si rompe non per un attacco esterno, ma per un errore interno, un corto circuito dentro la redazione stessa?
Chiaramente partiamo da un caso simbolico che è ormai alla conoscenza di tutti: una controversia alla BBC legata a un servizio manipolato in fase di montaggio, ma il punto non è solo la BBC. È capire come e perché si verificano certi fallimenti nei grandi media globali. Ogni volta che esplode uno scandalo del genere, si assiste al solito copione: polemiche, indagini interne, comunicati di scuse e, spesso – come anche in questo caso – dimissioni.
Ma la domanda vera è un’altra: queste dimissioni servono davvero a cambiare qualcosa, o sono solo sacrifici simbolici per placare l’opinione pubblica?
Quando il montaggio diventa manipolazione
L’errore di cui si parla non è un refuso o un dato sbagliato: è qualcosa di più grave. Parliamo di servizi tagliati e rimontati in modo da cambiare il senso di una storia. Non è una svista: è una manipolazione attiva. La differenza è sottile ma decisiva. Un errore di fatto si corregge, si spiega, si archivia. Una manipolazione, invece, mina alla base l’affidabilità di un’emittente: prende pezzi di realtà veri – che siano immagini, suoni, dichiarazioni – e li rimonta per creare una verità artificiale.
È una bugia costruita con materiale autentico, ed è questo che la rende così pericolosa.
Nel giornalismo, un caso di invenzione totale (come quello di Claas Relotius a Der Spiegel) può essere isolato: si individua il colpevole, si taglia fuori, e il sistema continua. Ma una manipolazione in fase di montaggio – come quella attribuita alla BBC – è diversa: non è un errore “solitario”. Significa che più persone (giornalista, montatore, caporedattore, persino legali interni) hanno visto, approvato o ignorato quella scelta. E qui il problema cambia scala: non è più etico, ma culturale.
È il segnale di un ambiente redazionale dove i controlli sono saltati e il sistema ha smesso di funzionare come dovrebbe. In casi del genere non basta un capro espiatorio: servono dimissioni ai vertici, non solo per punire qualcuno, ma per ripulire una cultura interna che ha perso la bussola editoriale.
Quando il controllo diventa la vera notizia
Il cosiddetto caso BBC della quale si parla tanto presenta tutti gli elementi tipici di una crisi editoriale:
- L’azione: un servizio montato in modo fuorviante, che cambia l’ordine o il contesto delle dichiarazioni per suggerire un significato diverso da quello reale.
- Il motivo percepito: la pressione di allinearsi a una certa narrazione, un possibile bias politico o, più banalmente, la voglia di proteggere la reputazione di una fonte interna o della stessa emittente.
- La conseguenza immediata: esplosione social, indignazione pubblica, dichiarazioni di smentita, indagini interne e la solita raffica di richieste di dimissioni.
In pratica, il copione classico del “caso mediatico”: il servizio incriminato diventa virale, il dibattito rimbalza ovunque, e la questione non è più solo “cosa è successo”, ma “com’è potuto succedere proprio alla BBC”.
La BBC come parafulmine del mondo
Perché ogni volta che scoppia un caso simile, è sempre la BBC a finire nel mirino? Perché non è solo un’emittente: è un simbolo nazionale. Fondata sul principio del public service broadcasting, finanziata dal canone e vincolata per legge all’imparzialità, la BBC non rappresenta solo un marchio: rappresenta un’idea di Paese, di democrazia e di fiducia pubblica, proprio questo la rende iper-vulnerabile.
Ogni suo errore diventa immediatamente un atto politico. Un montaggio manipolato non è percepito come una semplice svista, ma come la rottura di un patto sociale tra cittadini e istituzione. È un “tradimento” di quel principio fondante secondo cui chi paga il canone si aspetta trasparenza, equilibrio e rispetto della verità. E così, ogni scandalo diventa benzina sul fuoco delle guerre culturali britanniche. C’è chi usa il caso per attaccare il modello del servizio pubblico, chi per chiedere riforme o addirittura la privatizzazione dell’emittente.
Il risultato? Ogni crisi editoriale diventa un referendum sulla legittimità stessa della BBC, sulla sua indipendenza e sul suo futuro.
In sostanza, un errore altrove è un incidente. Alla BBC, è una crisi istituzionale.
Gli errori non sono tutti uguali
Cambiano le intenzioni, i contesti e soprattutto le conseguenze. Per capire davvero cosa succede dentro un media quando “salta la linea”, bisogna distinguere i vari tipi di errore: da quello umano e isolato, a quello sistemico e culturale.
L’inganno del singolo (la trappola del lupo solitario)
È il caso più classico: un giornalista che agisce da solo, fabbrica fonti, inventa interviste o copia pezzi altrui. Esempi celebri? Jayson Blair del New York Times (2003) e il già citato Claas Relotius di Der Spiegel (2018): due reporter di punta che, per anni, hanno scritto storie spettacolari… peccato fossero inventate.
La conseguenza è quasi sempre la stessa: il giornalista viene licenziato, l’azienda pubblica un’inchiesta interna chilometrica (il NYT ne fece una di oltre 7mila parole) e annuncia nuove procedure di fact-checking. Fine. La colpa resta di uno e l’istituzione si presenta come vittima dell’inganno.
Il crollo della verifica (quando la redazione si fida troppo)
Qui non c’è un ‘cattivo’ solitario, ma un errore collettivo. È il caso in cui la redazione non controlla abbastanza le fonti, presa dalla fretta di battere la concorrenza o dalla voglia di confermare una storia già scritta in testa.
Il caso più famoso è il “Rathergate“ alla CBS News (2004): il programma 60 Minutes accusò George W. Bush di aver falsificato i documenti sul suo servizio militare. Peccato che i documenti si rivelarono falsi. Qui il peso delle conseguenze aumenta: saltano non solo i giornalisti, ma anche i produttori e i responsabili di redazione. Persino l’anchorman Dan Rather, volto storico della CBS, fu costretto a lasciare.
La manipolazione deliberata (il caso dei “tagli e rimontaggi”)
È il tema centrale del caso di cui stiamo parlando: qui il materiale è vero – immagini, suoni, testimonianze – ma viene ricontestualizzato per raccontare qualcosa di diverso dalla realtà, dunque l’editing diventa inganno.
Altro esempio oltre quest’ultimo? Lo scandalo NBC del 1993, quando Dateline usò cariche esplosive per dimostrare che un camion poteva prendere fuoco, o il caso Martin Bashir, sempre BBC, che nel 1995 ottenne l’intervista con Lady Diana usando documenti falsi e venne poi coperto da una gestione fallace.
Questi casi sono i più insidiosi, perché la linea tra “sintesi giornalistica” e “manipolazione” è sottilissima. E spesso, le emittenti si difendono parlando di libertà editoriale. Le vere dimissioni arrivano solo se la pressione pubblica o politica diventa insostenibile.
La malattia di sistema (quando la cultura aziendale si corrompe)
È il livello più alto, e anche il più devastante: quando la scorciatoia non è più un’eccezione ma la norma. L’esempio più eclatante è lo scandalo delle intercettazioni telefoniche del News of the World (2011), giornale del gruppo di Rupert Murdoch. Qui non c’era un singolo colpevole, ma una pratica diffusa: hackerare i telefoni per ottenere notizie.
Risultato: una crisi sistemica che ha travolto l’intero impero mediatico. Approfondiremo meglio il suo caso proseguendo la lettura.
Chi paga davvero quando i media sbagliano
Guardando questi casi, emerge un modello chiaro: la reazione cambia a seconda di chi scopre l’errore. Se viene scoperto dall’interno, l’azienda lo gestisce in casa: revisione interna, qualche cambio di ruolo e comunicato di scuse. Insomma, l’obiettivo è chiudere in fretta e limitare i danni.
Se invece lo scandalo esplode da fuori – magari scatenato dai social, dai blogger o dalla politica – allora il caso diventa pubblico rischiando l’ingestibile. In quel momento, le dimissioni non servono più a “punire”, ma a placare la tempesta. È successo alla BBC con Greg Dyke, alla CBS con Dan Rather (e a breve ci torneremo nel dettaglio). Ufficialmente si dimettono per “responsabilità morale”, ma nella realtà sono sacrifici strategici per salvare la reputazione dell’istituzione.
Quando il giornalismo sbaglia: quattro casi che hanno fatto scuola
BBC e l’inchiesta Hutton (Regno Unito, 2003-2004)
Un caso che ha segnato la storia dei rapporti tra media e politica in Gran Bretagna. Tutto parte da un’inchiesta del giornalista Andrew Gilligan, che sostiene – citando una fonte anonima, poi identificata come lo scienziato David Kelly – che il governo di Tony Blair avesse “gonfiato” il dossier sull’Iraq per giustificare la guerra.
Il governo reagisce con forza, la vicenda si trasforma in tragedia con la morte (suicidio) del Dr. Kelly, e nasce una commissione d’inchiesta pubblica: la Hutton Inquiry. Il rapporto finale di Lord Hutton punta il dito non solo sul governo, ma soprattutto sulla BBC, accusata di avere meccanismi editoriali difettosi. È il momento in cui l’emittente simbolo della credibilità britannica finisce sul banco degli imputati.
Le conseguenze sono immediate: dimissioni ai massimi livelli. Prima il presidente del Board of Governors, Gavyn Davies, poi il direttore generale Greg Dyke. Il messaggio è chiaro: per proteggere l’istituzione a lungo termine, qualcuno deve pagare.
“Rathergate” e CBS News (Stati Uniti, 2004)
Negli Stati Uniti, quasi nello stesso periodo, scoppia un altro terremoto mediatico. Il programma 60 Minutes della CBS manda in onda un servizio sui cosiddetti “documenti Killian”, che avrebbero dimostrato come l’allora Presidente USA George W. Bush avesse ricevuto favoritismi durante il servizio militare. Peccato che i documenti si rivelino falsi – e non lo scoprono altri giornali, ma un gruppo di blogger indipendenti. È la prima volta che internet riesce a mettere in crisi un gigante dei media tradizionali.
Scatta un’indagine interna: il Thornburgh Panel parla di “fede cieca” nella storia. Saltano teste illustri: la produttrice Mary Mapes viene licenziata, altri tre dirigenti lasciano e Dan Rather, volto storico dell’informazione americana, è costretto a ritirarsi. Anche qui la logica è quella del sacrificio: si paga con una figura di vertice per salvare la reputazione del brand.
Claas Relotius e Der Spiegel (Germania, 2018)
Un caso diverso, ma altrettanto clamoroso che abbiamo citato (ma non approfondito) è quello di Claas Relotius, considerato il “golden boy” del giornalismo tedesco. Su di lui – e sui reportage realizzati per Der Spiegel – si scopre che per parecchi anni aveva inventato interviste, personaggi e dialoghi. Aveva persino vinto premi, elogi, copertine. Tutto falso.
Ma la parte interessante è come viene scoperto: non dai controllori interni, ma da un suo collega, Juan Moreno, che nota incongruenze in un lavoro fatto insieme e decide di indagare. Il giornale reagisce subito: apre un’inchiesta interna, pubblica un rapporto durissimo di 22 pagine e ammette i propri errori. Niente caccia alle streghe, niente scandalo politico, solo un enorme esercizio di trasparenza e autocritica.
Relotius viene licenziato, ma la redazione non implode, tanto che il caporedattore resta al suo posto. Il caso, gestito dall’interno e senza pressione politica, si chiude senza traumi strutturali. È la dimostrazione che, quando l’errore viene affrontato con lucidità e non con paura, il sistema può correggersi senza distruggersi.
News of the World (Regno Unito, 2011)
Qui siamo all’estremo opposto: una malattia sistemica. Lo storico tabloid del gruppo Murdoch, News of the World, costruiva le sue “esclusive” intercettando illegalmente messaggi vocali di vip, politici e perfino vittime di crimini.
Per anni si era parlato di mele marce, finché nel 2011 si scopre che anche il telefono della studentessa assassinata Milly Dowler era stato violato. A quel punto lo scandalo esplode e diventa una questione nazionale.
Nasce la Leveson Inquiry, un’indagine pubblica sulla cultura e l’etica del giornalismo britannico. L’impatto è devastante: arresti, dimissioni ai vertici, e infine la chiusura definitiva del giornale dopo 168 anni di storia. È il punto di non ritorno: la malprassi non è più un incidente, è un modello di business che collassa su se stesso.
Chi comanda, paga. Chi ammette, sopravvive.
Mettendo insieme questi episodi, emerge una costante: più è politico il contesto, più la risposta è violenta.
Quando l’errore tocca poteri forti, arrivano le teste che cadono. Quando l’errore resta interno, si può curare la ferita senza distruggere l’organismo. E quando l’intero sistema è corrotto, come in News of the World, l’unica soluzione è chiuderlo.
In tutti i casi, però, la morale è la stessa: le dimissioni non cancellano l’errore, ma servono a salvare la credibilità dell’istituzione. È un rito di purificazione che, nel mondo dei media, vale più di qualsiasi scusa.
Dopo la tempesta: cosa resta (e cosa si impara)
Ogni crisi mediatica, per quanto dolorosa, lascia dietro di sé una lezione. E se c’è una cosa che emerge da tutti i casi analizzati, è che la fiducia è l’unico capitale che i media non possono permettersi di perdere. Le dimissioni, le inchieste e le riforme sono solo strumenti. Funzionano solo se servono a ricostruire un rapporto di credibilità con chi guarda, legge o ascolta. Perché nel mondo dell’informazione la fiducia non si impone: si conquista, ogni giorno, con la trasparenza e con l’onestà del processo.
Oggi, ormai dominati da intelligenza artificiale e disinformazione virale, questa sfida è più grande che mai. I media non devono solo evitare gli errori, ma spiegare come lavorano, rendere visibile il dietro le quinte, ammettere i dubbi e le correzioni. È l’unico modo per restare credibili.
La storia recente lo dimostra: chi reagisce con opacità, perde tutto; chi sceglie la trasparenza, si salva. La BBC, dopo le sue crisi, ha saputo riformarsi; Der Spiegel ha trasformato lo scandalo Relotius in una lezione di metodo; c’è anche chi ha pagato un prezzo alto, ma hanno ridefinito i propri standard interni.
Le inchieste, le dimissioni, i dibattiti interni: tutto serve, ma solo se porta a un’evoluzione culturale. Perché alla fine non è solo questione di chi sbaglia, ma di come reagisce. Il punto è proprio questo: la crisi non è la fine della credibilità, è il momento in cui si decide se meritarla ancora.








